Esclusiva

Dicembre 9 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Dicembre 17 2024
Una storia di lotta e resilienza, il Tibet settant’anni dopo Mao

La giornalista Barbara Demick racconta il Tibet occupato dalla Cina comunista attraverso le testimonianze di chi ha resistito al regime

Quando noi occidentali pensiamo al Tibet, ci vengono in mente le altezze candide e vertiginose dell’Everest, le pericolose spedizioni organizzate per scalarne la vetta, i volti assorti dei monaci buddisti e poco altro. Dal nostro parziale punto di vista, questa terra sembra un posto lontano e inospitale rimasto ai margini della storia.

Eppure, l’altopiano tibetano è stato il luogo in cui per secoli ha prosperato un popolo di guerrieri, pastori nomadi e commercianti, un popolo indipendente e fiero della propria cultura, che negli ultimi settant’anni si è reso protagonista di una lotta strenua e disperata contro l’invasione e la rivoluzione culturale cinese. 

Barbara Demick, giornalista del Los Angeles Times, ha ricostruito questo lungo e doloroso periodo fatto di massacri e persecuzioni, deportazioni ed esili, raccogliendo le voci di chi lo ha vissuto sulla propria pelle. Mettendo a rischio la sua incolumità personale, è entrata più volte a Ngaba, città del Tibet orientale, da sempre teatro di scontri e proteste contro Pechino. «Volevo sapere cosa c’era, lì, che il governo cinese era tanto preoccupato di non farmi vedere» racconta nella nota introduttiva, spiegando che l’altopiano è quasi inaccessibile agli stranieri. 

Per visitarlo, infatti, c’è bisogno di un permesso che il governo cinese rilascia con molta parsimonia a chi fa domande scomode. Ma Demick, che non è nuova a imprese rocambolesche – uno dei suoi reportage più premiati, Nothing to Envy, è dedicato alla Corea del Nord – ha imparato a muoversi inosservata, camuffandosi con cappelli larghi, mascherine, cappotti e ombrelli. Così infagottata è riuscita a raggiungere anche altre località come Lhasa e Lixian, per poi andare oltre confine, nelle comunità tibetane in esilio in India e in Nepal. 

Da questo lungo viaggio nasce I mangiatori di Buddha (Iperborea, 2024) un racconto corale in cui le storie di re e principesse deposte si intrecciano con quelle di monaci, intellettuali, mercanti, studenti, uomini e donne comuni. Storie di chi ha deciso di combattere l’invasore e di chi è sceso a compromessi, di chi è rimasto e di chi ha preferito inseguire la propria libertà all’estero. A metà strada tra un’inchiesta e un romanzo, Demick scrive un libro che ridefinisce l’immagine di un Paese celato agli occhi del mondo e aiuta il lettore occidentale a capire cosa significhi oggi essere tibetani.  

L’incipit in medias res ci fa intravedere gli ultimi bagliori di un mondo antico che sta per essere spazzato via. Siamo nell’autunno del 1958 e Gonpo Tso Mevotsang, una delle figlie di Palgon Rapten Tinley, quattordicesimo sovrano del regno Mei, ha soltanto sette anni. Di fatto la piccola monarchia governata da suo padre, sul lato orientale dell’altopiano, è già parte della Repubblica popolare cinese. Ma Mao Tze Dong, che aveva forzato l’annessione servendosi delle armi, sembrava nutrire un certo rispetto verso i tibetani. Nel giro di poche ore, però, tutto precipita. Le truppe dell’esercito di liberazione cinese occupano il palazzo reale, destituiscono il re e scortano la sua famiglia lontano da Ngaba. 

Da quel momento in poi, la vita di Gompo e del suo popolo non sarà più la stessa. Attraverso la sua testimonianza, a cui si aggiungono, tra le altre, quella di Delek, guardia rossa coinvolta nelle insurrezioni dei ribelli, Tsegyam, poeta e insegnante, e di Dungtuk, monaco buddista, Barbara Demick racconta la brutalità del processo di occupazione e sinizzazione subito dai tibetani e i loro tentativi di ribellione contro il regime. Fino ai nostri giorni, alle Olimpiadi di Pechino del 2008 e alle immolazioni pubbliche di giovani monaci, che a decine si sono dati fuoco per le strade di Ngaba.

Sullo sfondo la figura del Dalai Lama, guida spirituale e politica che, pur vivendo in India dal 1959, ha sempre rappresentato per il suo popolo l’estremo baluardo contro l’oppressore cinese. Da quando ha rinunciato alla carica di capo di governo in esilio, si considera un difensore della cultura tibetana. «È questa la mia responsabilità: preservare la nostra cultura, la cultura della pace e della compassione» dice a Demick. Un compito svolto, in piccola parte, anche dalla storia orale raccolta in questo libro. 

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