Fare la valigia, partire e rilassarsi. È il sogno di tutti quando si avvicina l’estate. Ma prendere un aereo e volare da una città all’altra non è un’opzione accessibile a ogni persona. Anzi, per chi soffre di una malattia invisibile – come fibromialgia, endometriosi o lupus – è diventato impossibile.
Le persone con una disabilità visibile hanno diritto all’assistenza gratuita durante il viaggio, che possono richiedere con 48 ore di anticipo alla compagnia aerea. Questo comprende aiuto con il check-in, gestione dei bagagli, imbarco, sbarco e totale supporto durante il volo. Al contrario, chi vive con una disabilità invisibile non può in nessun modo accedere a queste facilitazioni: «Il fatto che io abbia sintomi che non si vedono, non vuol dire che non abbia bisogno di una mano o che non soffra ogni minuto. Trovo ingiusto fare discriminazioni tra chi ha un dolore evidente e chi no», racconta Marta*, che soffre di fibromialgia dal 2016.
Esiste un sistema che permette di segnalare la presenza di una disabilità invisibile ai dipendenti dell’aeroporto. È un cordino verde decorato con dei girasoli e una card attaccata alla sua estremità, introdotto dalla onlus Hidden disabilities sunflower nel 2016. La tessera è un identikit della persona che lo indossa e fornisce dettagli sulla sua malattia e l’assistenza che necessita.
L’associazione non ha ancora una sede in Italia, ma sta lavorando per diffondere questa iniziativa il più possibile nel mondo. Nel frattempo, il “sunflower lanyard” è riconosciuto e utilizzato da alcune compagnie aeree straniere, come Ryanair. Nonostante questo, spesso chi viaggia con loro non viene facilitato o aiutato dal personale di bordo o dagli addetti aeroportuali, come sarebbe previsto da Hidden disabilities: «Io indosso sempre il mio cordino in bella mostra, nella speranza che qualcuno se ne accorga e mi offra supporto. A volte viene anche notato, ma nessuno fa qualcosa», continua Marta.
La ragazza spiega che ogni luogo in aeroporto è inaccessibile – sia a livello strutturale che logistico – e non ideato tenendo a mente le difficoltà quotidiane con cui si interfaccia chi ha questo tipo di patologie: «Ogni momento è un incubo e so che posso contare solo su me stessa o la persona che mi accompagna. Io soffro di dolore cronico, non posso stare molto tempo in piedi, percorrere tragitti lunghi e trasportare oggetti pesanti. Dovrei poter saltare la fila per i controlli, quella al gate, evitare le scale ed essere aiutata con il bagaglio quando bisogna riporlo nelle cappelliere. A Londra, ad esempio, mi è capitato. Sono stata individuata in mezzo a una folla di gente e scortata altrove, dove la coda scorreva molto più velocemente e l’attesa era minima».
Il problema, secondo Marta, è l’indifferenza degli altri, dai dipendenti ai passeggeri: «La verità è che non lo capisci nel profondo finché non lo provi sulla tua pelle o vedi stare male un tuo caro. Se tutti fossimo malati, con sintomi atroci e invisibili, e ci fosse negato l’aiuto di cui necessitiamo, le persone proverebbero più rabbia e indignazione. Firmerebbero petizioni e organizzerebbero proteste per smuovere il governo ad agire con leggi e garantirsi un futuro migliore. Ma l’uomo è un animale abbastanza egoista. Vige il principio del “se non mi tange, non mi riguarda” e si va avanti così. Ovviamente parlo per ipotesi, non augurerei il dolore che sento tutti i giorni neanche al mio peggior nemico», conclude.
Già tra gli anni Quaranta e Cinquanta, il teologo tedesco Martin Niemöller predicava un sermone riguardo la non curanza e l’egoismo delle persone, che recita: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare». Un testo ancora attuale, applicabile anche al mondo delle disabilità invisibili, che evidenzia come l’apatia verso chi soffre può trasformarsi spesso in complicità silenziosa.
*Marta è un nome di fantasia per preservare la privacy della protagonista della storia.