Non appena i suoi occhi terminano di scorrere le ultime righe del libro che ha in mano, le dita di Anna corrono veloci a recuperare lo smartphone, digitano le prime lettere del titolo dell’app e ne selezionano l’icona. Poi, quando sul display si apre l’interfaccia di Goodreads, Anna cerca il titolo del volume, lo ‘logga’ e aggiunge la sua valutazione: questa volta seleziona solo due delle cinque stelline che l’applicazione predispone per giudicare i libri, si assicura che il suo voto rientri nella media stabilita dai punteggi attribuiti dagli altri utenti e guarda i commenti sulla scheda del romanzo.
Prima di uscire dall’app, il passaggio che le sta più a cuore: controllare se il numero dei libri che ha letto dall’inizio dell’anno è al passo con l’obiettivo che si è prefissata di raggiungere entro dicembre per adempiere alla ‘Reading challenge’, la sfida di lettura contro sé stessi che Goodreads invita gli utenti a impostare a gennaio di ogni anno.
Se del tracciamento della propria attività fisica tramite strumenti come Apple Watch e Fitbit e app come Strava si parla, in Italia, ormai da un decennio, le applicazioni che permettono di monitorare i prodotti culturali fruiti sono entrate in sordina nelle nostre vite, tanto che la loro interfaccia, per gli utenti italiani, è ancora in inglese. C’è però un aspetto che accomuna tutte queste applicazioni: la predominanza delle dinamiche tipiche dei social media.
Goodreads, fondata nel 2006 da due ex studenti della Stanford University, Otis Chandler ed Elizabeth Khuri Chandler, per consultare in modo facile ed immediato le letture dei propri amici e trarne ispirazione, ha da qualche anno introdotto delle ‘sfide’ tra utenti basate sul numero di libri letti durante l’anno, tenendo traccia della capacità di ognuno di raggiungere l’obiettivo tramite una barra che ne mostra l’avanzamento in percentuale.
Specularmente, per i film esiste Letterboxd, creata nel 2011 da Karl von Randow e Matthew Buchanan, e che, allo stesso modo di Goodreads, consente di tracciare i film visti, valutarli tramite un sistema a stelline e scrivere delle recensioni.
In entrambi, il profilo utente funziona come quello dei social media convenzionali, permettendo di impostare foto profilo e biografia, di seguire l’attività dei propri amici e di impostare i libri o film preferiti. È questa la caratteristica che trasforma delle attività da sempre individuali e personali, che dovrebbero permetterci di staccare dagli impegni della quotidianità, nell’ennesima occasione di mostrarci agli altri, di costruire una vetrina con cui parlare di noi, ma nella quale ci sentiamo costantemente monitorati, osservati dall’algoritmo e sottoposti al giudizio degli altri utenti.
I libri che leggiamo e i film che guardiamo finiscono per definire non solo i nostri gusti, ma anche il tipo di persona che siamo e perfino il nostro valore. E questo non solo in termini qualitativi, ma anche e soprattutto quantitativi: dobbiamo costantemente performare, consumare quanti più contenuti possibile, pena la perdita del nostro status di veri appassionati di cinema e di autentici lettori.
C’è un altro lato, meno evidente, che questa logica di auto-ottimizzazione e prestazione continua porta con sé, e che riguarda il valore commerciale e politico generato dai dati derivati dal tracciamento dei propri comportamenti. Se già le informazioni raccolte senza il consenso degli utenti, come quelle che arrivano dagli acquisti online, sono preziosissime per le big tech, i contenuti prodotti direttamente dagli utenti diventano oro colato.
Quando utilizziamo queste app stiamo inconsapevolmente permettendo la nostra profilazione, l’analisi e la commercializzazione di sempre più ambiti della nostra vita, a confermare ancora il luogo comune per cui se non stai comprando un prodotto, sei tu stesso il prodotto.