La Camera dei Rappresentanti ha votato e approvato la messa in stato d’accusa di Donald Trump per abuso di potere e ostruzione del Congresso. I voti sono stati su due articoli dell’impeachment e hanno rispecchiato gli schieramenti politici, dopo un lungo dibattito durato fino a tarda sera che ha rivelato la profonda polarizzazione della politica americana. L’accusa di abuso di potere è passata con 230 voti favorevoli e 197 contrari (di cui due democratici) mentre quella di ostruzione del Congresso con 229 favorevoli e 198 contrari (di cui un democratico). Si preannuncia ora un braccio di ferro tra il Senato e la speaker della Camera Nancy Pelosi: questa infatti potrebbe tardare a inviare gli atti all’altra Camera nel tentativo di ottenere condizioni più favorevoli nel processo.
Ne abbiamo parlato con Gregory Alegi, giornalista, saggista e docente di Storia delle Americhe presso la LUISS “Guido Carli”.
Ci sarà l’impeachment o no?
«No, i repubblicani hanno già detto che voteranno comunque per l’assoluzione di Trump. Poiché il Senato è a maggioranza repubblicana, il voto sfavorevole è un fatto scontato.
Per fare un paragone con il sistema giudiziario: la Camera ha messo in stato d’accusa il Presidente e ora la palla passa al Senato che dovrà occuparsi del processo; così i senatori avranno due ruoli, di giudice e di giuria. Alla Camera è previsto che l’impeachment debba essere votato dalla maggioranza semplice dei deputati, quindi il rinvio a giudizio – nonostante qualche democratico dubbioso – era scontato. Quando poi il procedimento arriverà al Senato non ci sarà alcuna possibilità in termini reali e tutto si risolverà nell’assoluzione. La probabilità che improvvisamente 11 senatori cambino idea è estremamente bassa».
È possibile che l’esito negativo del processo si riveli un boomerang per i democratici in vista delle elezioni del 2020?
«Dipende. Se i voti rispecchieranno fedelmente gli schieramenti politici – come è avvenuto alla Camera – non ci saranno conseguenze evidenti. Potrebbe però accadere che, alla luce di questo esito, i deputati democratici eletti un anno fa in collegi molto equilibrati o tendenzialmente repubblicani non vengano rieletti: ricordiamoci che nel 2020, insieme a Trump, si rinnoverà l’intero Congresso. La Ocasio-Cortez a New York, per esempio, può stare sicura ma qualcuno in Michigan o Carolina è titubante e mette sulla bilancia il proprio interesse politico immediato invece che quello generale del Paese».
Cosa pensa della lettera inviata il 17 dicembre a Nancy Pelosi da Trump, in cui il Presidente si scaglia contro Fbi, Cia ed Intelligence statunitense?
«Tutti siamo liberi di difenderci ed esprimerci come preferiamo. Il problema è la modalità di espressione, l’economia delle parole: il tycoon non vuole convincere qualcuno, parla ai “suoi”, quindi utilizza un linguaggio per loro comprensibile».
Questo stile di comunicazione potrebbe avere effetti a lungo termine sulla democrazia statunitense?
«È difficile rispondere precisamente a questa domanda. In compenso, ciò che è estremamente pericoloso per il sistema democratico degli Stati Uniti e del resto del mondo è il modello di governo che Trump e i “suoi” propongono. Infatti, l’idea che la vittoria legittimi a fare ciò che si vuole, comprese magari cose che possono minare la possibilità di altri di vincere alla successiva tornata elettorale, è devastante per la democrazia. Questa sua retorica è indicativa di un determinato atteggiamento ovvero: “o fai quello che vuole il capo oppure ne paghi le conseguenze”. Se oggi Tocqueville andasse negli Stati Uniti scriverebbe La fine della democrazia in America».