Sui social infuria la polemica sul ruolo che la stampa italiana ha avuto nell’emergenza. Sono in molti a sostenere che la copertura data alla vicenda sia stata eccessiva, tanto nel numero di articoli pubblicati sul tema quanto nei toni utilizzati. L’allarmismo delle principali testate italiane avrebbe contribuito ad alimentare nell’opinione pubblico angoscia e disorientamento.
Per capirne di più, abbiamo intervistato il professor Michele Sorice, docente di Sociologia della Comunicazione alla Luiss Guido Carli.
Una mappa della CNN ha rappresentato l’Italia come l’epicentro del Coronavirus. Che ruolo hanno avuto i giornali italiani nella pandemia?
«Ci sono diversi responsabili, ne possiamo individuare almeno tre. Innanzitutto un attore collettivo, i media: c’è stato un tentativo di enfatizzare e spettacolizzare l’evento, creando panico. La stampa ha sì il dovere di informare, ma è innegabile che ci sia stata una corsa al sensazionalismo, almeno nella prima fase della narrazione. Il secondo attore è la politica: alcuni leader in molti casi hanno utilizzato l’infezione per fare propaganda, cercando qualche voto all’interno dei social. Sarebbe opportuna la riscoperta di un senso di responsabilità da parte della classe politica italiana, che in momenti così difficili dovrebbe riscoprire il senso del rispetto delle istituzioni e rivolgere l’attenzione ai cittadini, che vengono prima degli stakeholder e della politica stessa. Mi sembra invece che non abbia contribuito a rasserenare il clima».
Anche la stampa estera è corresponsabile?
«Sì: il terzo attore collettivo è l’informazione statunitense, che lavora intensamente alla costruzione della notizia in tempi molto rapidi, spesso senza controllo delle fonti, in molti casi con logiche di spettacolarizzazione e sensazionalismo che superano persino quelle delle nostre emittenti. Il caso della cartina della CNN è emblematico: disegna un virus che parte dall’Italia, di cui però il nostro Paese è solo un focolaio laterale e non certo l’epicentro. Mi sembra quindi ci sia un’informazione incompleta, tipica di un certo pressappochismo dei media americani, che spesso tendiamo a esaltare con troppa facilità dimenticandoci che non esiste solo il Washington Post, ma anche la CNN, che fa informazione 24 ore su 24 in maniera efficiente ma a volte al prezzo di semplificazioni erronee».
Come si dovrebbe impostare la comunicazione mediatica in questi contesti?
«I media non devono mai venire meno al loro ruolo, che è quello di informare. La trasparenza informativa è necessaria. Anche le notizie spiacevoli vanno date e non è accettabile una qualsiasi forma di censura o auto-censura. Tuttavia, c’è modo e modo di dare le notizie: per esempio, dire quanti sono i contagiati e contestualmente quanti sono i guariti, quali sono i rischi, quali le possibili vittime e le potenzialità della ricerca è un modo corretto di fare informazione. Se do solo la prima parte della notizia – quanti sono i contagiati – è chiaro che c’è un problema. Non si tratta di limitare l’informazione, ma di darla in maniera chiara e completa».
C’è stato un fenomeno di overload comunicativo?
«All’inizio sì, si è parlato solo di Coronavirus. Sono scomparse tutte le altre notizie e il paradosso è che sono sparite anche quelle sulle misure decise dal governo per contrastare il virus o limitarne i danni. Tutta l’attenzione è stata focalizzata sul “paziente 0”, una ricerca peraltro inutile perché non solo non è stato trovato ma non è nemmeno consapevole di essere il responsabile del focolaio italiano. Questo è sicuramente un elemento di overload, che sfocia nella ricerca ossessiva del “sensazionale a tutti i costi”. È chiaro che questa è la notizia più importante, quella che riempie le prime pagine, ma è altrettanto evidente che abbia fatto passare in secondo piano qualsiasi altro tipo di tema».
Come si spiega il cambio di rotta della stampa italiana, prima allarmista, ora più rasserenante?
«Credo e voglio sperare che ci sia stato un sussulto di senso di responsabilità perché è logico che dare notizie con toni drammatici non aiuti a risolvere i problemi, così come alimentare i sospetti crea situazioni di disordine comunicativo e pubblico: pensiamo alle aggressioni nei confronti di cittadini cinesi ma anche alle richieste delle istituzioni, come il Presidente della Repubblica, di dare informazioni mantenendo i toni bassi e un clima di serenità. Si tratta di un’epidemia che ha dei rischi, rischi che vanno combattuti insieme. Mi sembra quindi che il sensazionalismo della prima fase sia stato sostituito con un maggior senso di responsabilità. Poi, che qualche testata tradizionalmente usi qualsiasi news per orientarla verso il proprio interesse è un malcostume giornalistico purtroppo non nuovo. Ci sono state d’altra parte emittenti che hanno avuto un grande senso del dovere nel dare questa notizia: mi viene in mente RaiNews 24, che fin da subito ha tenuto una prospettiva di grande trasparenza informativa mai gridata, senza generare allarmismi. Direi che è stato un bellissimo esempio di giornalismo di qualità del nostro servizio pubblico».