La provincia di Blida dista meno di un’ora di macchina da Algeri. È in questo angolo di terra poco lontano dalla capitale che è stato individuato quello che al momento è il più grande focolaio di Coronavirus non solo dell’Algeria ma dell’intero continente africano. 17 contagiati tutti appartenenti alla stessa famiglia. A infettarne i componenti sono stati due connazionali algerini residenti in Francia. Un uomo di 83 anni e sua figlia, tornati in Algeria per partecipare a una festa, hanno soggiornato a Blida dal 14 al 21 febbraio, dove sarebbero entrati in contatto con la famiglia, ora messa in quarantena. Una volta tornati in Francia, l’uomo e la figlia sono risultati positivi al Covid-19. Ai 17 contagiati della provincia di Blida si aggiungono altri due casi, uno dei quali è da identificare nel cittadino italiano arrivato in Algeria lo scorso 17 febbraio da Milano, e scoperto positivo al Coronavirus. L’uomo, un dipendente dell’Eni proveniente dal lodigiano, è attualmente in isolamento all’Istituto Pasteur di Algeri.
A fronte dell’inaspettato aumento dei contagi, il governo algerino guidato dal primo ministro Abdelmadjid Tebboune, ha promesso il potenziamento di ospedali e forniture mediche per monitorare e trattare la diffusione del Coronavirus. È stato istituito un numero verde per le emergenze, radio e televisioni trasmettono in francese e in arabo gli spot con le informazioni fondamentali per ridurre il contagio. Il timore condiviso e fondato è, però, che l’Algeria non sia pronta ad affrontare un’epidemia di Coronavirus. La diffusione del virus non ha fermato le manifestazioni del movimento Hirak, che dal febbraio 2019 guida le proteste contro il governo del Paese. A Blida le persone sono scese in piazza, come accade ogni venerdì da più di un anno a questa parte, senza che venisse adottato alcun dispositivo di sicurezza, né da parte dei manifestanti né per iniziativa delle autorità cittadine.
A destare maggiore preoccupazione in caso di epidemia è soprattutto lo stato in cui versano gli ospedali dello Stato. In un video che circola sui social network, ripreso anche dai siti di informazione algerini, una donna infettata da Coronavirus denuncia le condizioni dell’ospedale di Boufarik, nella provincia di Blida, in cui si trova in osservazione.
Nella sua stanza non c’è luce, non c’è una doccia, i bagni lasciano a desiderare: “E’ una cella per prigionieri”, ripete.
L’Algeria non è l’unico paese africano ad affrontare la lenta diffusione del Coronavirus. Gli ultimi dati della Johns Hopkins University segnalano 15 casi in Egitto, 1 in Tunisia, 2 in Marocco, 4 in Senegal, 1 in Togo, 1 in Nigeria, 1 in Camerun e 1 in Sudafrica. Al momento non ci sono morti ma è probabile che i numeri continueranno a salire man mano che i controlli saranno intensificati.
Questa previsione non può che assumere tinte ancora più buie se si fanno i conti anche con le condizioni precarie della sanità africana. Il Jonhs Hopkins Center for Health Security e l’organizzazione Nuclear Threat Initiative hanno schedato 195 paesi del mondo sulla base della capacità che ciascuno di essi avrebbe di far fronte alla diffusione improvvisa di malattie. Nel continente africano 30 dei 54 Stati è sotto il livello accettabile di preparazione.
Lo scorso 22 febbraio, ad Addis Abeba, i ministri della salute africani si sono riuniti per stabilire una strategia comune per far fronte alla diffusione del Coronavirus, in modo da contenere devastanti conseguenze per l’Africa ed evitare di replicare lo scenario che si è verificato con l’epidemia di Ebola nel 2014. La diffusione rapidissima dell’Ebola era stata allora aggravata da due fattori: il ritardo con cui erano stati scoperti i primi casi infetti, dovuto all’assenza di una strumentazione adeguata a identificare i contagi; la mancanza di protezioni e di training per medici e personale sanitario.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stavolta ha provato a giocare d’anticipo e ha già adottato le prime misure di prevenzione: 41 paesi africani si sono già dotati dei tamponi per effettuare i test, 30.000 kit per la protezione personale sono stati inviati alle strutture ospedaliere e 11.000 lavoratori nella sanità sono stati formati per affrontare l’emergenza, numeri che sono però ancora troppo esigui per un continente che ospita più di 1 miliardo di persone.
In collaborazione con l’Oms, l’African Centres for Disease Control and Prevention (Africa CDC) ha istituito una task force coordinata da 5 paesi, Senegal, Kenya, Marocco, Nigeria, Sudafrica (i più preparati sul fronte medico), che avrà il compito di gestire la diffusione del virus, informare la popolazione, sorvegliare l’efficienza dei laboratori che conducono i test e accertare che vengano rafforzati gli screening sulle persone che arrivano in Africa e che viaggiano da un paese all’altro del continente. Nonostante questi primi sforzi fatti a livello continentale, spetterà però ai singoli Stati attivarsi per ridurre la diffusione del Covid-19 sul proprio territorio. Viste le premesse non c’è però da stare sereni.