Lo scorso 14 marzo, all’ospedale North Middlesex di Londra, un neonato è risultato positivo al test per Covid-19. La madre era stata ricoverata pochi giorni prima per una polmonite. Sulla possibilità di trasmissione verticale del virus, Zeta ha intervistato la dottoressa Serena Donati, direttore del Reparto Salute della Donna e dell’Età Evolutiva presso l’Istituto Superiore di Sanità.
Dottoressa, come commenta la notizia del neonato trovato positivo al virus?
«Va subito fatta una precisazione: il tampone orofaringeo sarebbe stato fatto tardi, circa 36 ore dopo il parto. Dunque, non è possibile escludere un contagio successivo. Le evidenze oggi disponibili indicano, come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che l’infezione non si trasmette per via verticale. Noi ginecologi facciamo riferimento ai dati pubblicati su due studi cinesi, basati su una numerosità limitata, con nove e dieci casi. Gli accertamenti erano stati eseguiti su donne al secondo e terzo trimestre di gravidanza, positive al Coronavirus. I prelievi di liquido amniotico e quelli ematici da cordone ombelicale sono risultati tutti negativi e i tamponi orofaringei dei diciannove neonati hanno dato lo stesso esito. È appena uscito un nuovo articolo che riporta l’esperienza di un ospedale in Cina, dove 4 bambini nati da mamme con infezione COVID-19 sono risultati sani. Le uniche due segnalazioni di casi sospetti, una cinese e una inglese, riguardano neonati positivi, per i quali non si può escludere che il contagio sia avvenuto per via aerea dopo il parto e non in utero. Ad oggi tutte le agenzie internazionali sostengono che questo virus non si trasmette per via verticale. Abbiamo comunque necessità di raccogliere nuovi casi per disporre di evidenze più robuste».
Come si fa diagnosi nel neonato?
«All’inizio dell’epidemia i colleghi cinesi hanno ricercato il virus nel liquido amniotico, che tuttavia richiede un prelievo tramite amniocentesi, perché alla nascita è contaminato dal sangue materno. Attualmente si preferisce fare la ricerca dell’acido nucleico del virus sul sangue del cordone ombelicale, mediante la reazione a catena della polimerasi (PCR), e sul tampone nasofaringeo nel bambino appena nato. Questi esami permettono di conoscere la positività del neonato dopo qualche giorno dal prelievo. A scopo di ricerca si possono utilizzare tamponi e biopsie della placenta, oltre ad eseguire il suo esame istopatologico».
Quali precauzioni deve adottare una donna in gravidanza?
«Le cautele sono quelle stabilite per la popolazione generale. Occorre che la gestante e i familiari prendano tutte le precauzioni necessarie, dal frequente lavaggio delle mani all’attenzione alla trasmissione per via aerea. Se la donna risultasse positiva al tampone, l’iter successivo dipenderebbe dalla gravità del quadro clinico. In assenza di sintomatologia rimarrebbe a casa. In caso di sintomi, specie se gravi (con affanno e peggioramento degli scambi respiratori), sarebbe indicato il ricovero. In prossimità del parto, in assenza di indicazioni specifiche, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non prevede il taglio cesareo per le donne positive al virus».
Ci sono differenze rispetto ad altre epidemie?
«C’è una buona notizia. Le donne incinte non presentano un rischio aumentato rispetto al resto della popolazione, anzi, sembrano meno suscettibili alla malattia. Ciò confermerebbe il basso numero di contagi. MERS e SARS avevano un tasso di incidenza e mortalità più elevato. Inoltre, mentre le gestanti con influenza H1N1 vanno incontro a severe complicazioni respiratorie, la polmonite delle pazienti in gravidanza con infezione da Coronavirus oggi sembra manifestarsi in maniera meno grave. Un lavoro cinese descrive 15 casi in cui nessuna donna ha presentato una sintomatologia e un riscontro diagnostico di grave compromissione respiratoria. Anche per queste considerazioni dobbiamo, tuttavia, attendere una casistica più ampia per poter trarre delle indicazioni conclusive».
Sarebbe indicata la terapia con un anticorpo monoclonale specifico per il virus?
«Non abbiamo evidenze. Non bisogna mai tradurre le scoperte della ricerca in immediate opportunità di cura. Occorre un’attenta e lunga validazione. Le terapie nuove vanno confermate in termini di efficacia e, soprattutto, di sicurezza. Le donne in gravidanza sono una popolazione su cui difficilmente si fanno sperimentazioni di farmaci. Le scelte terapeutiche che le riguardano devono essere certe e corroborate dall’esperienza della pratica clinica».