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Esclusiva

Marzo 21 2020
Addio Gianni Mura, cantore dello sport

La scrittura, l’amore per il ciclismo e quella famosa somiglianza con Brera. Ci ha lasciati oggi a 74 anni la storica firma di Repubblica

“Chi lo sa, magari lo sono veramente…”. Quando qualcuno in redazione gli chiedeva per l’ennesima volta la stessa, un po’ insulsa, domanda (“ma è vero che sei il figlio di Gianni Brera?”), scrollava le spalle e ridacchiava. Che fosse la sede milanese o quella centrale di Roma – dove arrivava raramente, ma sempre per grandi appuntamenti dello sport – il suo saluto aveva qualcosa di burbero; ma poi te lo ritrovavi a chiacchierare sul tavolo pieno di quotidiani e mozziconi di sigarette per “quattro chiacchiere” e una immancabile partita a scopa o a briscola.

Gianni Mura, era – per noi della Repubblica di Scalfari – l’altro ‘Gioanin’. Il primo era Brera, con le sue pipe, il suo dialetto, le sue bevute, le sue battute sarcastiche e le sue improvvise sfuriate. Mura – che non era suo figlio naturale (anche se una lontana somiglianza c’era) ma era il suo vero erede nel mondo del giornalismo sportivo – era meno gigione, più ombroso, riservato come lo sanno essere i sardi, origine di cui lui (milanese in tante cose) andava fiero.

Il suo mondo era la bella ma semplice casa vicino la Stazione Centrale, le redazioni dove aveva passato lunghi giorni e lunghe nottate, i suoi libri (era un avidissimo lettore e amava la poesia come pochi grandi giornalisti hanno saputo amare), i locali dove tirava tardi a mangiare, bere, chiacchierare e giocare a carte (La Nuova Arena, L’Osteria del Treno, Il Vecchio Porco). Aveva una vita felice, con la moglie Paola un sodalizio che era diventato anche professionale da quando , era il 1991, avevano insieme una rubrica di enogastronomia sulle pagine del Il Venerdì.

Ho avuto modo di passare con lui alcune giornate piacevoli in redazione, l’ho avuto come vicino in qualche indimenticabile cena, gli sono stato accanto nella tribuna di San Siro, dove lui era di casa (e di lavoro) e io ogni tanto mi imbucavo per tifare il mio Milan. Da giovane era un tifoso dell’Inter, poi con il passare degli anni la professione lo aveva reso più agnostico e di fronte a giovani colleghi negava ogni fede calcistica (ma continuava ad averla…).

Amava molto il ciclismo. Era un patito del Tour de France, su cui ha scritto pagine indimenticabili e che seguiva ogni anno raccontando ogni giorno anche il pezzetto di Francia (cultura, cucina, vini, costumi) in cui si trovava. I suoi maestri erano Brera (ovviamente) ma anche Luigi Veronelli, Mario Fossati e – “non prendermi per un esaltato” – George Simenon. Veronelli lo ha convinto che scrivere di cibo o di vino potesse essere alto giornalismo, come ha raccontato lui stesso in diverse interviste: “Ho iniziato a seguirlo sulle pagine de Il Giorno quando lui, precedendo il Giro d’Italia di una giornata, scriveva una pagina su quello che avresti trovato a Vercelli piuttosto che a Campobasso o a Perugia: credo di essere cresciuto predisposto dalle letture di Veronelli a una grande ricerca e difesa della cucina territoriale e cioè dei piatti più tipici di una zona. Insieme a Soldati gli va riconosciuto l’aver iniziato a parlare di argomenti che riguardavano il mangiare e il bere in un modo nuovo”.

Come giornalista aveva un che di dinosauro (e se lo diceva da solo), non amava il computer (anzi lo odiava) e fu uno degli ultimi ‘resistenti’ alle nuove tecnologie. Non gli piacevano i ‘social network’, i nuovi linguaggi, i neologismi anglofoni ma le sue rubriche (come “Sette Giorni di Cattivi Pensieri”) sono state giornalismo innovativo (e talvolta mal copiato). 

Aveva iniziato alla Gazzetta dello Sport e il suo esordio lo ha raccontato così: “Ho iniziato un po’ per caso, andavo ancora al liceo classico”. La sua compagna di banco lo incoraggiò: “Lo sai che alla Gazzetta cercano giovani?”. Il primo articolo, dopo la gavetta, finì nel cestino. Doveva scrivere un paio di cartelle di intervista a Germano, brasiliano del Milan, ala sinistra. Ci mise tutto l’impegno, anche troppo, citazioni in tedesco e in dialetto. L’allora direttore, il mitico Gualtiero Zanetti non gradì. “Di Brera ne abbiamo già uno e mi basta. Mi disse che potevo ficcarmelo proprio lì. Ricordati, aggiunse, che con il tuo pezzo il muratore della Bovisa ci si fa un cappello di carta”.

Capì la lezione ma di Brera diventò presto allievo prediletto, professionale e anche di vita gaudente. Hanno condiviso lo stile, l’amore per la letteratura e la buona tavola. Si ritrovarono insieme a Repubblica molti anni dopo (Mura era passato anche per le redazioni di Epoca e dell’Occhio, il tabloid di Maurizio Costanzo che ebbe breve vita) e il quotidiano di Scalfari potè schierarli insieme nella grande avventura del Mundial ’82 in Spagna. Nel ’92, quando Brera morì in un incidente stradale, toccò a Mura il pezzo più difficile. Lo dettò in lacrime, a braccio, da Malta, mentre raggiungeva lo stadio per una partita della nazionale. “Ti sia lieve la terra, Giovanni. Comincio come avresti concluso tu se fossi morto io, come hai concluso tante volte i coccodrilli”.

Con il giornale l’ultima telefonata è alla vigilia della morte: “Sono Gianni, volevo avvisarvi che domani non scriverò la mia rubrica. Qui in ospedale non mi hanno portato il pc e neanche i giornali. Scusatemi”.

Addio Gianni, che la terra ti sia lieve.