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Esclusiva

Marzo 26 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 14 2020
Quando una birra ha il sapore della libertà

Due ex detenuti regolarmente assunti, prodotti made in carcere provenienti da tutta Italia esposti in vetrina e un grande sogno che sfida i pregiudizi nei confronti di chi vuole ricominciare: il pub “Vale la Pena” è il simbolo dell’integrazione lavorativa in Italia

Luci calde e accoglienti, reti metalliche che delimitano i tavolini, il bancone del bar nascosto da sbarre in ferro. Nel cuore del quartiere Appio-Tuscolano a Roma c’è un pub aperto da oltre due anni che colpisce subito all’occhio per l’arredamento alternativo: alla vista tutto sembra rievocare un carcere, eppure si tratta di un luogo che trasuda rinascita e solidarietà in ogni angolo.

Il nome del pub è già un programma, “Vale la Pena”. Si tratta di un progetto sociale nato grazie a un’idea di un fisioterapista del Servizio sanitario nazionale, Paolo Strano, che per lavoro frequenta i detenuti delle carceri di Roma. Col tempo Paolo scopre la realtà del mondo carcerario, imparando ciò che quasi nessuno immagina, ovvero che il reinserimento sociale e lavorativo per un detenuto in Italia è molto difficile, se non impossibile, a causa dei costi di mantenimento e delle spese processuali che è chiamato a pagare alla fine della pena.

Quando una birra ha il sapore della libertà
L’arredamento interno del pub “Vale la Pena”

In media infatti nel nostro paese ogni carcerato, una volta uscito dalla prigione, deve pagare una somma pari a circa 90 euro mensili per ciascun mese speso in carcere. In alcuni casi i detenuti pagano queste somme lavorando per il carcere già durante lo sconto della pena, in altri casi vengono assunti da imprese sociali di economia carceraria, mentre molti, non lavorando in alcun modo, si ritrovano somme di denaro ingenti da pagare allo Stato una volta scontata la pena. Di fronte a queste cifre, il 68% dei detenuti in Italia torna a delinquere per potersi permettere una vita dignitosa, rendendo inutile il periodo di espiazione trascorso in carcere, e quindi arrecando un doppio danno a tutto il sistema nazionale.

«In genere più è alto il livello di istruzione di un detenuto e più è difficile fare uso di ciò che si è imparato. Arrivati a fine pena non è semplice spendere un diploma importante per chi ha finito di scontare degli anni di carcere: quando si cerca lavoro i datori guardano anche al vissuto complessivo della persona, e in Italia c’è ancora un forte pregiudizio nei confronti dei detenuti», dice Alessio Scandurra, da anni impegnato nell’Associazione Antigone per i diritti dei detenuti. Tornare a delinquere diventa così un’abitudine come le altre: è il problema della cosiddetta “recidiva”, che da anni resta una questione aperta. C’è da aggiungere che alla fine della pena ogni detenuto non riacquista automaticamente tutti i diritti persi una volta entrato in carcere: servono infatti numerosi permessi costosi per rifare una semplice patente, una carta d’identità per l’espatrio e un passaporto, insomma tutto l’occorrente necessario per tornare a lavorare come qualsiasi cittadino libero.

Di fronte a queste scoperte, Paolo Strano decide di lasciare il suo lavoro sicuro da fisioterapista e fonda la Onlus “Semi di Libertà”, aprendo un birrificio artigianale nel carcere di Rebibbia e offrendo un posto di lavoro a numerosi detenuti che si alternano nei mesi. Dopo pochi mesi Paolo trova in Oscar La Rosa, giovane studente di scienze politiche alla Luiss di Roma, un aiuto importante nella direzione commerciale della Onlus: grazie infatti alla sua tesi di laurea sulla lotta alla recidiva con lo strumento del lavoro, Oscar entra in contatto con numerose cooperative carcerarie in giro per l’Italia che localmente vendono prodotti fatti dai detenuti all’interno delle prigioni, per poi organizzare un festival il 2 giugno 2018 invitando tutte le cooperative che aveva conosciuto per la tesi. L’evento ottiene un notevole successo, tanto da suscitare numerose domande nei volontari: «il problema era che ogni cooperativa vendeva i propri prodotti solo localmente, nelle città delle carceri in cui avevano la loro sede. C’era dunque bisogno di qualcuno che vendesse i prodotti ai consumatori in modo unitario. Oggi siamo gli unici ad offrire nel nostro pub & shop “Vale la Pena” la possibilità di acquistare prodotti made in carcere provenienti da tutta Italia, e stiamo per avviare un sito di e-commerce per cominciare anche con le spedizioni online», ci dice Oscar orgoglioso del lavoro svolto finora. Dalla pasta fatta a mano dai detenuti dell’Ucciardone di Palermo ai taralli delle carceri di Siracusa e Ragusa, dal miele prodotto dai carcerati di Vasto al caffè macinato della casa circondariale femminile di Pozzuoli: tutto ormai nel pub “Vale la Pena” parla di reinserimento lavorativo e lotta alla recidiva.

Quando una birra ha il sapore della libertà
I prodotti di economia carceraria provenienti da tutta Italia esposti e venduti all’interno del pub “Vale la Pena”

«Il carcere di solito è visto con timore, un luogo pensato come sporco e oscuro. E ad essere sporco e oscuro quindi è anche tutto quello che viene prodotto all’interno del carcere stesso: attraverso il nostro pub & shop noi vogliamo invece dimostrare che dalle carceri italiane può uscire anche lavoro, impegno, cibo. Che è vita», continua Oscar, aggiungendo che i prodotti gastronomici carcerari sono fatti a produzione lenta e quindi di maggior qualità a differenza delle produzioni industriali, garantendo comunque il prezzo di mercato ai consumatori.

C’è poca sensibilizzazione in Italia, sostiene Oscar, che per il futuro sogna di aprire un ristorante che offra prodotti di economia carceraria: «I detenuti nella maggior parte dei casi non sono consapevoli dei diritti di cui godono sia quando sono dentro che fuori dal carcere: quando sono affiancati da una cooperativa – come quelle che ho incontrato e con cui lavoriamo oggi – diventa più semplice lavorare durante la pena e trovare lavoro una volta usciti di prigione. In pochi sanno che esistono degli sgravi contributivi per chi assume persone che vivono in una casa circondariale, ancora non ho incontrato commercialisti che ne siano consapevoli».

Simone, 39 anni, è un ex detenuto che ha appena finito di scontare una pena di 10 anni, e da ottobre 2019 è ormai parte integrante del pub tuscolano “Vale la Pena”. «Se è vero che tu vai in galera per espiare la tua colpa, quando esci non sei più nessuno, devi ricominciare tutto da capo. I detenuti non sono aiutati in nessun modo dallo Stato, per questo molti ricorrono alla via più facile, e l’unico modo per poter campare è tornare a fare reati» dice con tono pacato ma deciso. Grazie a “Semi di Libertà” Onlus oggi Simone ha ricominciato a lavorare da cittadino in piena regola, ma il suo percorso non è stato semplice, così come non lo è per migliaia di detenuti che ogni giorno in Italia finiscono di scontare una pena senza sapere dove andare, cosa fare e con quali mezzi cercare un lavoro per sopravvivere.

Quando una birra ha il sapore della libertà
L’arredamento interno del pub “Vale la Pena” richiama ironicamente le stanze di un carcere

Anche Massimo, 36 anni, ex detenuto come Simone, dopo 10 anni di vita carceraria voleva impegnarsi in “qualcosa di serio”, e dopo un breve colloquio conoscitivo con Oscar del pub ottiene un impiego come tirocinante presso il birrificio di Semi di Libertà Onlus, per poi essere anche lui assunto regolarmente da ottobre 2019 in “Vale la Pena”. Massimo è in libertà vigilata e per legge quindi non è autorizzato a lavorare ogni giorno. Nonostante la sua pena sia ormai estinta e scontata, lo stato di libertà vigilata gli impone periodicamente di ricevere l’autorizzazione di un magistrato per recarsi al pub e lavorare. «Fosse stato per altri datori di lavoro a quest’ora sarei ancora alla ricerca di un lavoro a causa di queste restrizioni, ma in questo pub sono stato fortunato», dice Massimo mentre serve spedito la clientela dal bancone del pub. «Questo sistema è criminogeno: sono già da tempo disinnamorato del mio paese, e queste disposizioni non fanno che peggiorare la situazione. Se la Costituzione italiana e le leggi vigenti sul sistema carcerario fossero messe in atto oggi faremmo la rivoluzione, ma temo sia molto difficile. Per il contesto generale dell’Italia mi sento abbastanza disilluso, sogno infatti di andare all’estero per migliorare e normalizzare la mia vita. Ad oggi comunque sono fiero di quello che sono, e quando mi guardo allo specchio sono contento così», conclude Massimo, poco prima di uscire per fare il cambio di turno.

«Sogniamo che questo pub possa diventare luogo di ritrovo, di studio e di relazioni per tutti gli abitanti della comunità, dove liberamente si possano condividere storie e relazioni» esclama convinta Veronica, che da volontaria nel pub ha sposato la causa del reinserimento lavorativo dei detenuti da anni. «Perché senza la cultura delle relazioni non possiamo andare da nessuna parte», compresa la direzione della giustizia e della piena integrazione sociale.