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Esclusiva

Aprile 8 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 28 2020
La vita e la morte nella natura delle cose

Per il poeta latino Lucrezio, tutto è soggetto al ciclo di nascita e morte. Nulla, però, può distruggere i legami umani, nemmeno la peste.

Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i libri, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, lettera dopo lettera, frase dopo frase, e pian piano da una pagina in bianco e nero possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #letteraturedaquarantena 


La leggenda dice che il poeta latino Lucrezio, vissuto più di duemila anni fa, sia impazzito per amore. Si suicidò, a 45 anni. Depresso, bipolare. Così lo ha definito qualche critico novecentesco, in vena di dare etichette. Lucrezio era seguace del filosofo greco Epicuro e, sempre secondo la leggenda, nei momenti di lucidità scrisse un’opera di poesia, il De rerum natura, per raccontare in versi la natura delle cose, come dice il titolo latino.

Attraverso la lente della filosofia epicurea, Lucrezio spiega il mondo fisico e gli uomini, l’origine di questi ultimi, le loro passioni. Vuole illuminare con la luce della ragione i meccanismi che permettono alle cose e agli esseri umani di funzionare, liberare i suoi lettori dall’ignoranza della superstizione. Nulla si crea, nulla si distrugge. La natura e gli uomini sono costituiti da particelle infinitesimali, ribattezzate dai greci con il nome di atomi che, unendosi, danno inizio alla vita e, disgregandosi, ne provocano la fine. Il principio della vita è, dunque, interno al mondo stesso. È una forza che attrae e unisce. È, senza retorica alcuna, l’amore.

La vita e la morte nella natura delle cose
Affresco della Villa di Livia, Roma

Il De rerum natura si apre con l’immagine della primavera che torna: la terra fa nascere fiori dolcissimi, le distese del mare sorridono, il cielo sereno risplende di luce diffusa. La rinascita è iscritta nel ciclo della natura. È inevitabile, come la morte che è invece disaggregazione, separazione delle particelle che compongono la materia naturale e umana, e che si riuniranno ancora, in un nuovo ciclo vitale. Non bisogna avere paura della morte perché, come diceva il maestro Epicuro, quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi. La morte è nulla per noi. 

La vita e la morte nella natura delle cose
Epicuro

Nel sistema che Lucrezio delinea, non c’è un dio all’origine, a definire le cose, a tracciare il destino degli esseri mortali. Le divinità sono beate, lontane, indifferenti alle gioie e ai dolori degli uomini. «Non c’è dubbio che i tormenti che si dice si trovino nelle profondità dell’Acheronte, sono tutti, in realtà, nella nostra vita», scrive Lucrezio. 

Come fare, allora, con la propria sofferenza, in un mondo senza dèi? Solo la filosofia può liberare dalle paure, guarire come un farmaco, aiutare a vivere. Ma si tratta più di una speranza che di un’incrollabile convinzione. 

Il De rerum natura si conclude con il drammatico racconto della peste che si abbatte sulla città di Atene, un evento accaduto secoli prima che Lucrezio nascesse. È una narrazione cupa, claustrofobica, che sembra in contraddizione con il messaggio del poeta. Per questo alcuni studiosi hanno pensato che l’opera sia rimasta incompiuta. Il poema di Lucrezio sembra tuttavia rispettare le stesse regole che interessano il ciclo vitale di tutte le cose: come l’incipit racconta di una rinascita, così la fine dell’opera racconta la morte nella sua forma più disperata e corale.

La vita e la morte nella natura delle cose
Affresco della Villa dei Misteri, Pompei

Il morbo infetta le persone, gli animali, tutti gli elementi vitali. È un fuoco che colpisce il corpo, che non dà sollievo. È un fenomeno fisico, una degenerazione della natura, non un castigo degli dèi. 

Tutto è convulso, nei giorni dell’epidemia. I figli muoiono prima dei padri, le strade della città e perfino i templi degli dèi sono colmi di cadaveri. I medici non possono fare nulla per fermare la pestilenza, solo lasciare i malati alla morte. Pur nel sovvertimento generale di ogni regola, gli uomini non dimenticano però di dare sepoltura ai loro cari, non li abbandonano finché le fiamme non bruciano i loro corpi. Nella disperazione che accompagna la fine, la miseria annichilisce e disintegra la realtà, ma non riesce a cancellare la pietà degli uomini verso i propri simili.