L’obitorio centrale di Hankou a Wuhan è affollato di cittadini comuni in guanti e mascherine. Sono tutti seduti a fissare dall’altra parte del vetro delle piccole urne in latta, tutte di color azzurro, messe una sopra l’altra. Non si tratta di una qualsiasi produzione cinese di vasi da giardino, ma di urne funerarie contenenti le ceneri delle oltre 2mila vittime del coronavirus registrate a Wuhan da gennaio. Secondo altre indiscrezioni di stampa rivelate dall’agenzia Coixin, invece, il coronavirus sarebbe stato letale per più di 5mila abitanti.
Dopo 76 giorni di lockdown la città dove si è sviluppato il primo focolaio della pandemia di Covid-19 in tutto il mondo, sembra essere quasi tornata alla normalità con l’abbandono di gran parte delle restrizioni messe in atto il 23 gennaio. Il capoluogo dell’Hubei era stato bloccato con l’intera provincia, coinvolgendo 60 milioni di persone. Se possono dimostrare di godere di un buono stato di salute e di non essere entrati in contatto con persone infette negli ultimi 14 giorni, gli abitanti di Wuhan potranno tornare a lavoro e uscire di casa anche per commissioni personali. Le scuole e le università però restano chiuse, così come è restato attivo il blocco totale della formazione di assembramenti pubblici. Il rischio di una ‘ricaduta’, lo sanno bene a Pechino, potrebbe nascondersi dietro l’angolo.
I controlli della polizia locale sono serrati e impossibili da schivare: ogni cittadino residente a Wuhan deve infatti aver scaricato l’app AliPay o la più nota WeChat, per mostrare alle forze dell’ordine un codice Qr sullo stato di salute ottenuto grazie al controllo elettronico degli ultimi spostamenti e contatti avuti dal singolo nelle ultime due settimane. In caso di ‘codice rosso’ sull’app, inevitabilmente al singolo verrà richiesto l’obbligo di quarantena domiciliare per altri 14 giorni. Misure dure che arrivano direttamente da Pechino e che potrebbero venire applicate presto in tutto il resto della Cina. Secondo commentatori locali infatti ciò che il paese del dragone vuole mostrare oggi al mondo è che i suoi abitanti si stanno rialzando dopo la crisi, ma senza tralasciare le nuove misure cautelative di restrizione.
Ciò che più fa tremare nei palazzi del potere di Pechino è però la ricaduta economica e commerciale che le misure di contrasto al coronavirus stanno scatenando. Nei giorni del picco di infezioni in Europa e negli Stati Uniti si combatte senza tregua per arginare il contagio, mentre in Cina si cominciano a fare i conti con dati allarmanti circa l’occupazione e le industrie: 5 milioni di cittadini avrebbero perso il posto di lavoro e secondo il South China Morning Post mezzo milione di società nazionali sarebbero state costrette alla chiusura. Sarà dunque difficile ripartire in un paese quasi tutto focalizzato sull’export e che in condizioni di normalità già registrava un alto tasso di diseguaglianza e disparità sociale a seconda della regione in cui si nasce.
Si tratta dunque di una sfida senza precedenti quella che dovrà affrontare il capo di stato e vertice del Partito Comunista Cinese Xi Jinping nell’anno “del topo”. Non a caso alcuni economisti hanno scherzato sul fatto che l’ultima volta che il calendario cinese ha segnato l’anno del topo era il 2008, annus horribilis per i sistemi finanziari di tutto il mondo, da cui però la Cina ne è uscita più forte rispetto ai partner europei e nordamericani. «I nemici più grandi per la Cina, infatti, oggi non sono né l’economia in rallentamento né la competizione con gli Stati Uniti, ma la fiducia della società civile e il morale della popolazione», dice Giulia Sciorati, analista esperta di Cina per l’ISPI, Istituto Superiore di Politica Internazionale. «La distensione delle misure di lockdown nelle province dello Hubei e del Jiangxi a fine marzo, d’altronde, non era stata accolta positivamente, ma aveva portato a delle vere e proprie sollevazioni popolari. Se il coronavirus ha insegnato qualcosa a Pechino, è non dare per scontato il favore della sua società civile, soprattutto ora che la pandemia le ha dato la forza di sollevarsi contro quelle decisioni che non condivide, non una ma più volte».