«L’altro giorno ho visto una foto della stazione centrale di Tokyo, dove c’è un calendario che segna la distanza dai Giochi olimpici. Ero andato lì a ottobre quando mancavano trecento giorni, ora che è aumentata ho pensato “siamo punto e a capo” e mi sono fatto una risata». 30 anni, campione italiano in carica di salto in alto agli ultimi assoluti indoor di Ancona, Marco Fassinotti è in cerca di rilancio dopo un periodo non facile a causa degli infortuni. Per il torinese il sogno delle Olimpiadi è solo rimandato di qualche mese.
Come hai preso la decisione del Comitato Olimpico Internazionale di rinviare le Olimpiadi al 2021?
«Hanno fatto bene. Lo spirito olimpico prevede che tutti gareggino con gli stessi mezzi e questo non era possibile a causa del Coronavirus. Anche i metodi di qualificazione sarebbero stati diversi: magari uno sportivo di una certa nazione si sarebbe potuto allenare mentre un altro sarebbe stato bloccato in quarantena. C’era anche il rischio di stare in un villaggio olimpico tutti insieme: con un solo positivo ci sarebbe stata un’infezione di massa. Essendo una persona pratica, ho cercato di vedere i lati positivi: ho un anno in più per prepararmi. Sono in Australia adesso. Mi alleno, anche se per farlo devo andare al parco da solo con il mio allenatore. È chiaro che in pista sarebbe meglio».
Quanto hanno inciso gli infortuni nella tua carriera?
«Ho perso occasioni in termini di medaglie e di partecipazione a determinati eventi. Sul lato umano, però, tutto ciò mi ha insegnato tanto: sono più forte e strutturato come persona e questo lo devo anche alla gestione degli infortuni e delle insicurezze che ne derivano. Puoi trovarti a dover tornare in pista a un anno di distanza dalle competizioni: non ricordi nemmeno più com’è fatto lo stress, ti dici “a 28 anni devo imparare tutto da capo” e ti innervosisci. Per arrivare dove voglio devo ancora lavorare sulla gestione sia della gara, sia dell’allenamento fisico. Per questo, quando ho appreso del rinvio, mi sono detto: “Ok, avrò un anno in più. Grazie del regalo”».
Hai un rito particolare prima di una gara o di un salto?
«In passato ne avevo, ora non più: se sei tu che controlli il rituale questo ti dà sicurezza, ma se senza di esso diventi più vulnerabile, ne sei dipendente e questo rovina le tue prestazioni. Prima di ogni competizione cerco di ascoltarmi, faccio meditazione ed esercizi di respirazione, a volte ascolto la musica. Da piccolo avevo le “mutande da gara”. Dopo un po’ l’elastico aveva cominciato a cedere, quindi ho dovuto buttarle. Da quel momento non ho più avuto nulla a cui attaccarmi in modo forte».
Sembri una persona molto gelosa della sua privacy. Qual è il tuo rapporto con i social?
«Circa un anno e mezzo fa ho provato a essere più costante sui miei canali, ma il focus si spostava troppo su come volessi apparire, mentre io voglio solo essere me stesso. Quindi li ho lasciati. Ricevo richieste da persone che vorrebbero sapere come va il mio percorso e questo mi mette in difficoltà. Da una parte mi gratifica, dall’altra sono un timido, faccio fatica a espormi, ho sempre paura di non piacere o di non riuscire a trasmettere le mie emozioni. Piuttosto che continuare a sbatterci la testa ho preferito rinunciarci, anche se sento che avrei tante cose da raccontare. Un limite, poi, è che se mi metto a scrivere un post su Instagram, in trenta secondi ho riempito già una pagina. Magari un giorno scriverò un’autobiografia».
Come vivi i rapporti con i tuoi colleghi?
«Ognuno vive la pedana a modo suo. La cosa importante è che ci sia sempre rispetto per l’avversario. Una volta un atleta inglese ha commesso una grave scorrettezza nei miei confronti, ma io dovevo pensare alla mia gara. Poi è chiaro che dopo la competizione non vado a sedermi con lui. Allo stesso modo puoi trovare la persona che non ti aspetti: un anno e mezzo fa ho fatto una gara in Giappone andata molto male, ero sotto un treno e un altro atleta, che era andato bene, mi ha voluto offrire una cena in un bellissimo ristorante. Abbiamo parlato di noi, rimanendo fuori dallo sport. Vivo questo ambiente un po’ come la mia vita di tutti i giorni, dove ho pochi amici, ma buoni».
Cosa ti ha spinto a iscriverti alla Luiss?
«In passato ho frequentato Lettere e Filosofia a Torino. Durante il secondo anno mi sono trasferito a Birmingham e, non riuscendo a conciliare studio e sport, ho mollato. Ho sempre letto, mi tengo informato: saranno cinque anni che ascolto ogni mattina la rassegna stampa di Radio radicale. Quando ho scoperto questo progetto, anche grazie a Filippo Tortu, mi sono subito interessato. La facoltà di Scienze Politiche, specie per quello che riguarda materie come la sociologia e l’ambito delle istituzioni, credo possa essermi molto utile».
Dove ti vedi fra dieci anni?
«Magari farò l’ambasciatore o finirò ad allenare, cosa molto probabile. Lo sport mi ha dato tantissimo a livello umano e vorrei riuscire a restituire questo agli altri. Preferirei allenare i ragazzini di 16 – 17 anni, dando loro una mano a crescere, piuttosto che seguire un professionista che vince una medaglia. Se riuscissi a rendere alla società quello che l’atletica mi ha insegnato, cioè la sicurezza nei miei mezzi, l’indipendenza e la capacità di prendere decisioni, mi sentirei soddisfatto. Farò ciò che mi sentirò di fare: la porta è aperta a tanti scenari».