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Esclusiva

Aprile 29 2020
La catena spezzata: il cibo ai tempi del virus

Scaffali pieni e vendite stabili per negozi e supermercati ma la chiusura di ristoranti, bar e alberghi sconvolge la filiera italiana. Per ora la rete di distribuzione alimentare regge ma non è detto che la situazione rimanga a lungo sotto controllo

«La situazione attuale è per definizione critica. Se non cambiano le cose non ne verremo fuori» dice Lorenzo Bazzana, manager di Coldiretti. Ha la voce che tradisce preoccupazione mentre al telefono spiega cosa sta succedendo al comparto agricolo, tra i motori dell’economia italiana. Ad aggravare il settore, già provato da anni di crisi economica, è la chiusura di hotel, bar, mense, ristoranti. Questa filiera di distribuzione – in gergo Horeca –  rappresenta più di un terzo dei consumi alimentari del paese, quelli extradomestici, ed è bloccata da oltre due mesi. 

“L’aumento di vendite che ha avuto la grande distribuzione organizzata (Gdo) in negozi e supermercati, soprattutto nelle prime settimane di lockdown, non riesce a fare da contrappeso. Non è detto che tutti i produttori abbiano gli strumenti adatti per ricollocarsi nei canali rimasti aperti. La vendita di farina, ad esempio, ha avuto un incremento del 200% ma soltanto chi è in grado di confezionare pacchi da 1kg può accedere ai supermercati».

La rete di distribuzione alimentare nazionale è un sistema complesso, fatto di piccole, medie e grandi aziende, di tante persone che si impegnano per far arrivare il cibo in tavola ogni giorno. «E’ una grande responsabilità quella che abbiamo sulle spalle – dice Guido, agricoltore e presidente del consorzio agricolo Copla, a Fondi (LT) – molti sottolineano gli sforzi che sta facendo la grande distribuzione ma dietro ci siamo noi che forniamo i prodotti e dobbiamo tutelare i nostri dipendenti». I pomodori, i cetrioli e la lattuga che Guido coltiva con cura non mancheranno sugli scaffali dei supermercati perché la loro produzione a Fondi, dove c’è il mercato ortofrutticolo più grande d’Italia e snodo fondamentale del settore agroalimentare nostrano, è a ciclo continuo. «Il problema della mancanza di manodopera, però, è reale. Non riescono arrivare in italia i lavoratori, perlopiù extracomunitari o comunitari dell’est, impiegati per la raccolta di frutta e verdura, come quella di mele e meloni che si dovrebbe svolgere proprio ora, tra maggio e agosto».

La catena spezzata: il cibo ai tempi del virus
Operai al lavoro, Consorzio Agricolo Copla di Fondi, Latina

I cambiamenti della società causati dal Covid19, l’isolamento e le nuove norme di sicurezza per contenere il contagio hanno causato sconvolgimenti notevoli alla rete di distribuzione alimentare. Sono aumentati i costi per le aziende che devono sanificare gli ambienti, diluire i turni di lavoro per garantire il distanziamento sociale, misurare la temperatura corporea dei dipendenti e acquistare i dispositivi di protezione individuale. I prodotti eccedono: per la diminuzione delle vendite i magazzini sono pieni e i prezzi al consumo più bassi del solito, con la conseguente riduzione degli incassi dei produttori che a fatica riescono a ripagare le spese.

Per ora la catena di distribuzione alimentare regge. Lo confermano gli italiani che vanno a fare la spesa e gli scaffali riforniti dei supermercati. Ma non è detto che la situazione rimanga a lungo sotto controllo.

Dopo il boom iniziale, nelle ultime settimane le vendite di negozi e supermercati si sono stabilizzate a +2,7% rispetto allo scorso anno, secondo le stime di Nielsen, società leader mondiale nella misurazione di ciò che succede nella grande distribuzione. La spesa è diventata schizofrenica: da una parte i consumi di prima necessità si sono semplificati, dall’altra aumentano le vendite di patatine, pop-corn, stuzzichini per l’aperitivo, di vino e birra, delle creme spalmabili, segno che gli sfizi sono garantiti anche in quarantena. «Non deve esserci nessun timore – dice Daniela Sciarra, responsabile comunicazione Conad – non si prevede la mancanza di alcun tipo di prodotto nei supermercati, il 90% dei nostri fornitori è italiano».

Pesce e verdure surgelati, confezionati con materie prime italiane o d’importazione, non dovrebbero mancare nei banchi frigo. «Certo, c’è stato qualche rallentamento nella produzione a causa delle nuove norme per la sicurezza dei lavoratori, ma grazie al coraggio e al senso di responsabilità delle donne e degli uomini che lavorano nella nostra azienda e lungo la nostra filiera, ci stiamo impegnando per far sì che i prodotti continuino ad arrivare a casa degli italiani» assicura Alessandro Bonfiglio, Supply Chain Director di Findus. «Abbiamo registrato una decelerazione nelle importazioni di materie prime ma pianificando le operazioni siamo riusciti ad evitare i ritardi».

La catena spezzata: il cibo ai tempi del virus
Agricolore, Consorzio Agricolo Copla di Fondi, Latina

A mettere a dura prova la tenuta del settore agroalimentare italiano, le aziende e le cooperative che vi operano, è stata soprattutto la chiusura di alberghi, ristoranti, bar e mense. L’azzeramento della domanda ha portato alla riduzione della produzione e fornitura di beni alimentari, e al crollo dei prezzi. 

Visto dall’alto il porto di Ancona assomiglia a una gigantesca tartaruga. Dal suo molo partono migliaia di pescatori che riforniscono il mercato locale e regionale. «Avremmo potuto continuare a lavorare durante il lockdown ma abbiamo ripreso il mare solo dopo quattro settimane, sia perché ci sono stati alcuni casi di Covid tra gli associati (marinai ed armatori) e ci siamo spaventati, sia perché la domanda di pesce è diminuita drasticamente con la chiusura della ristorazione» racconta Enrico Bigoni, presidente della Cooperativa Pescherecci e Motopescherecci di Ancona. «Tenere la distanza sociale è complicato: le barche sono grandi ma si dorme e mangia in 4mq. Abbiamo dovuto sanificare i mezzi e fare formazione ai nostri dipendenti sui comportamenti corretti da tenere con costi a nostro carico oltre a quello già pressante del gasolio. In mare, però, capitano di frequente situazioni di emergenza in cui è difficile non stare vicini. Indossiamo i dispositivi di sicurezza ma tra schizzi d’acqua, sudore e pioggia, abbiamo bisogno di una mascherina nuova ogni ora». I costi per la protezione del personale e la sanificazione dei mezzi ricadono sulle spalle dei pescatori che non riescono più a ripagare le spese. La richiesta di pesce è diminuita, anche da parte della distribuzione organizzata, e di conseguenza sono crollati i prezzi all’ingrosso. 

«Un merluzzo di grandi dimensioni in media costa 11/12 euro al chilo. Ora è sceso a 8 euro. Gli scampi a dicembre costavano 80 euro al chilo, adesso 22. Le famiglie non hanno più soldi». L’emergenza coronavirus ha stravolto i ritmi, ridotto i guadagni e i turni lavorativi. I pescatori di Ancona ora escono in mare al massimo due giorni a settimana. Prima sondano il terreno per capire se c’è richiesta, domandano ai commercianti se hanno bisogno di pesce. «In fondo si tratta di fortuna – spiega Enrico – le prime barche estratte per l’asta del pesce mattutina riescono a vendere la merce ad un prezzo quasi normale, gli altri ci rimettono. Portare a casa uno stipendio decoroso è diventata un’utopia. Al momento da parte dello Stato e della Comunità europea abbiamo avuto zero aiuti.” Il mese scorso gli armatori della Cooperativa hanno anticipato i soldi per la cassa integrazione dei marinai che in qualche modo devono pur mangiare. «Se non riaprono i ristoranti e non inizia una vita quasi normale noi siamo messi proprio male».  

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Stabilimento Findus di Cisterna di Latina

Ad essere colpiti duramente dalla chiusura del settore Horeca sono stati anche i produttori e distributori di carne. Lo scambio di animali tra allevatori è fermo per difficoltà logistiche. L’industria della carne ha finora retto l’urto, assicurando la presenza dei prodotti sugli scaffali dei supermercati ma alle luci si alternano le ombre. «La situazione è drammatica per le aziende che lavorano per la ristorazione. Molte sono sull’orlo del fallimento, dall’oggi al domani si sono trovate a fatturare zero», afferma François Tomei, direttore generale di Assocarni. Per la chiusura delle frontiere e dei mercati esteri, le esportazioni sono crollate. Le carni con i tagli più pregiati, destinate a ristoranti e alberghi italiani e esteri di alta gamma, non hanno più un mercato e rischiano di accumularsi.  «La Commissione europea ha deciso di ritirare le carni invendute per congelarle e rimetterle sul mercato tra qualche mese. Una misura dell’altro secolo che non risolve il problema, lo rimanda».

Non si congela solo la carne, in attesa di tempi migliori. Anche il surplus di latte rappresenta un problema cui porre rimedio per evitare sprechi. La filiera ha tenuto, facendo sistema. Le aziende in difficoltà hanno venduto il latte in eccesso ai produttori che avevano maggiore richiesta. Il latte restante è stato riconvertito in formaggi da stagionare oppure trasformato in cagliata e congelato in vista della riapertura delle pizzerie. «Per il futuro abbiamo chiesto agli allevatori di ridurre le produzioni per alleggerire il mercato – commenta Massimo Forino di Assolatte – altrimenti, la situazione diventa onerosa da sostenere». 

La catena spezzata: il cibo ai tempi del virus
Pescatore, Cooperativa Pescherecci e Motopeschericci di Ancona

Uno scenario simile interessa anche i vini: per la chiusura di alberghi, enoteche, ristoranti e per il calo delle esportazioni, le cantine sono piene, troppo piene a ridosso della prossima vendemmia. Una strada per smaltire il vino in eccesso è distillarlo e trasformarlo in disinfettante o alcool per l’industria chimica. Altrimenti si pensa alla cosiddetta vendemmia verde: lasciar marcire a terra i grappoli che diventano concime. L’agricoltore ottiene un sussidio economico per affrontare la situazione e non si creano problemi di stoccaggio. Ma servono il via libera e gli stanziamenti economici delle istituzioni. «Sono provvedimenti che il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali deve prendere insieme alla Comunità europea – spiega Sandro dell’azienda agricola Terre di Serrapetrona, nelle Marche – speriamo di sapere qualcosa entro la fine di maggio. La vendemmia verde non si può fare troppo in là perché intanto si aggiungono molte altre spese per la manutenzione delle vigne».