“La mafia sta vincendo perché il sistema carcerario fa schifo”. Roberto Saviano spiega così la vicenda delle scarcerazioni dei mafiosi che stanno avvenendo in queste settimane, e che sta occupando una parte del dibattito politico.
È il quinto appuntamento su webex con la redazione di Zeta, e con il suo racconto sul sistema detentivo italiano, Saviano ci ha permesso di appoggiare un occhio sullo spioncino che dà al mondo delle carceri, un microcosmo in disparte, fatto di errori di sistema, ma anche colmo di storie umane.
Lo Stato, nella lotta al crimine, non dovrebbe limitarsi al
solo ruolo repressivo. Per disinnescare qualsiasi tipo di reato c’è bisogno di
un sistema detentivo sano e di un percorso di recupero per il detenuto. Oggi
tutto questo nel nostro Paese non c’è. Se nelle carceri italiane vi fossero
stati ospedali e aree di incontro private, come ve ne sono in Spagna, il nostro
sistema carcerario sarebbe stato preparato all’arrivo del Covid-19.
Saviano è calmo nei toni, ma le sue parole non nascondono l’insofferenza che la
situazione gli provoca.
In Italia vi sono esempi virtuosi, uno è il carcere di Rebibbia a Roma. Per un detenuto, finire a Rebibbia significa avere buone possibilità di recupero. È successo all’ex terrorista del NAR Fioravanti.
Ci sono però luoghi di detenzione in cui la mafia è padrona. Spesso nelle carceri si decidono le correnti, i governi e gli investimenti delle mafie. L’NCO, la nuova camorra organizzata degli anni 80, è nata in carcere, così come i Basilischi, organizzazione criminale lucana, e la Sacra Corna Unita. Il 41bis, purtroppo utilissimo, è servito proprio a evitare che le prigioni diventassero un ministero di incontro e di scambio criminale.
Il carcere, in alcune circostanze, viene visto dal mafioso come un luogo dove prendersi una pausa, o dove trovare rifugio nel momento in cui fuori sono in corso faide. Salvatore Riina diceva: “un po’ di branda rende migliori”. Va detto che questo, negli anni 70 e 80, non era vero per tutti. Durante il terremoto dell’Irpinia, nel carcere di Poggioreale a Napoli, mentre tutto tremava, Cutolo, approfittando della confusione, diede l’ordine di uccidere una decina di suoi avversari in quel momento detenuti.
Dallo studio fatto sulle carceri sappiamo che più un detenuto viene spinto alla disperazione, più è facile che vada ad affiliarsi a organizzazioni criminali. I detenuti che non ricevono una paga, o vengono sistematicamente picchiati dai compagni di cella, cercano rifugio tra le braccia dei capi clan delle carceri, e spesso trovano quello che cercano, diventano affiliati. Ci troviamo quindi nella situazione in cui un detenuto entra in carcere come semplice ladro, e esce come membro di un clan mafioso. Le strutture carcerarie perdono così il loro ruolo di centri di rieducazione. Questa è una sconfitta, non solo per il detenuto, ma per la società intera, che continua a mantenere al suo interno soggetti devianti, senza tentare neanche di recuperarli.
Un passo importante verso il recupero dei detenuti è quello di abituarli al lavoro. A questo scopo si dovrebbero aumentare le paghe date ai detenuti per le mansioni che svolgono dentro le carceri. Un detenuto con un’entrata sicura non andrà a chiedere aiuto alle cosche. Ad oggi però le paghe in Italia sono ancora irrisorie.
Un ottimo esempio lo offre il sistema carcerario scandinavo, dove i detenuti sono discretamente pagati per il loro lavoro, gli ambienti sono ben tenuti e non sono previste condanne a vita. Coloro che escono dalle prigioni scandinave non sono più pericolosi di quando sono entrati. Quando fu arrestato Breivik, il terrorista norvegese filonazista che uccise a sangue freddo 77 persone, gli fu riservato un trattamento uguale agli altri detenuti. Per questo motivo l’amministrazione scandinava fu sottoposto a numerose critiche, ma la risposta fu esemplare: “Non lasceremo che Breivik scardini il nostro sistema carcerario”.