«Nessun paese occidentale nella storia recente si è mai rifiutato di pagare un riscatto per liberare un proprio ostaggio, fosse anche per un solo caso. Mente chi afferma il contrario», così dice a Zeta Carlo Bonini, scrittore e giornalista investigativo, che per il quotidiano la Repubblica ha seguito i casi di cronaca più complicati e divisivi degli ultimi anni, come il caso Cucchi e la storia di Giulio Regeni, nonché numerose vicende legate alla mafia e al narco-traffico su tutto il territorio italiano.
Come avviene il pagamento di un riscatto? Quali sono gli appoggi bancari su cui possono contare le grandi cellule terroristiche e perché?
«Non dobbiamo immaginare la classica scena dell’uomo che lascia una valigia piena di denaro dietro un cespuglio e ritira in tutta fretta l’ostaggio. I pagamenti dei riscatti non avvengono mai attraverso canali bancari. I pagamenti alle organizzazioni terroristiche avvengono quasi sempre in contanti e lontano dal luogo del sequestro, quasi sempre nei paesi del golfo. Il versamento del riscatto e il rilascio dell’ostaggio poi avvengono contestualmente: chi ha l’ostaggio viene avvisato dell’avvenuto pagamento e a quel punto la persona rapita viene liberata. Chi ha incassato il denaro poi resta in custodia di chi lo ha appena pagato, così che nessuno possa fare “scherzi”. Quei soldi in contanti poi vengono usati in modi diversi: vengono divisi e trasferiti in contanti o versati in banche sicure e anonime, ma non c’è mai un bonifico che viene versato a delle organizzazioni criminali, sarebbe ridicolo».
Perché alcuni paesi scelgono il pagamento di un riscatto piuttosto che l’incursione armata, e perché l’Italia con i suoi servizi segreti ha imboccato la prima tradizione?
«Al di là delle enunciazioni non c’è quasi nessun paese al mondo che nel tempo, anche tra quelli che si sono sempre detti fedeli alla dottrina della “fermezza”, non abbia mai finito di trattare con organizzazioni terroristiche per liberare ostaggi. È successo anche agli Stati Uniti, che hanno trattato con scambi di prigionieri, così come è capitato alla Gran Bretagna che ha sborsato denaro in numerose vicende. È successo ovunque. Esistono comunque due approcci diplomatici diversi: da un punto di vista teorico per entrambe le dottrine si potrebbero spendere parole che ne illustrerebbero l’efficacia e le controindicazioni. La prima, di cui l’Italia si è fatta promotrice a prescindere dalle maggioranze di governo, è quella secondo cui la tutela della vita umana sia un principio non derogabile, di fronte al quale anche il pagamento del riscatto sia uno strumento a cui è possibile se non doveroso ricorrere. La seconda è quella della fermezza, del pugno duro e della liberazione attraverso l’incursione armata. Questa dottrina è costruita sull’assunto che trattare con i terroristi significa creare un precedente, che a sua volta significa moltiplicare potenzialmente il rischio di cadere di continuo vittime di altri sequestri».
Quanto è reale questo rischio nei fatti?
«Per un’organizzazione terroristica sapere che sequestrare un italiano è garanzia di ricevere un riscatto rende certamente il cittadino italiano più a rischio. Ma è altrettanto vero che la scelta di non trattare con i terroristi ha tagliato fuori gli Stati Uniti e la Gran Bretagna da zone del mondo dove è necessario essere presenti. Le trattative per gli ostaggi infatti non riguardano solo il piano del denaro: in queste vicende si negozia anche altro, come interventi bellici, scambi di prigionieri, aiuti umanitari. È la cosiddetta black diplomacy. Le due linee in assoluto presentano vantaggi e svantaggi. Alla fine quello che diventa decisivo nella scelta di un’autorità politica nel pagare un riscatto è la capacità o meno di far tollerare all’opinione pubblica l’idea che un concittadino possa morire o rimanere ucciso per mano di terroristi. Non c’è nessun politico al mondo disposto a lasciar morire un ostaggio: la morte di quell’essere umano potrebbe costargli un prezzo inaccettabile in termini di consenso».
Crede che per l’Italia questo discorso sia ancora più evidente?
«Credo proprio di sì. Noi siamo un paese che per ragioni storiche ha un’opinione pubblica che non ritiene accettabile l’idea che un civile inerme possa pagare il prezzo di una guerra a bassa intensità contro il terrorismo con la propria vita».
Pensa questo nonostante gli attacchi feroci degli ultimi giorni rivolti a Silvia Romano? La giovane volontaria è stata liberata eppure secondi molti giornalisti e cittadini l’Italia non sarebbe dovuta intervenire.
«Quello che sta accadendo oggi in Italia con Silvia Romano è un dibattito talmente deteriore e insulso che ci porta lontano dall’essenza della questione. Il problema – insisto – è quello di fare un esercizio di verità rispetto a come queste cose funzionano e al perché funzionano in questo modo. Sono certo che la maggior parte della popolazione italiana da sempre è favorevole al pagamento dei riscatti. Dal 2001 in poi l’Italia non ha conosciuto prove terribili che hanno visto altri paesi, come le decapitazioni con coltelli e scimitarre fatte a ostaggi civili nelle mani di organizzazioni terroristiche. L’Italia non avrebbe retto a quell’orrore, non perché siamo deboli di cuore, ma perché siamo un paese che da sempre mette al centro del problema la priorità della vita umana. Lo abbiamo visto anche negli ultimi due mesi col coronavirus, dove in nome della vita e della salute abbiamo imposto un lockdown senza precedenti nel mondo. La salute e la vita umana sono al centro del nostro sistema di valori».
Dobbiamo aspettarci un indebolimento della reputazione dell’Italia agli occhi dei terroristi del mondo, che vedrebbero in cittadini italiani (ancora di più dopo il caso Romano) delle vittime remunerative?
«Gli italiani sono visti come walking money dal settembre 2001, da quando ci fu l’invasione occidentale in Afghanistan e poi nel 2003 in Iraq. Abbiamo una lunga tradizione di sequestrati nel mondo: uomini di Chiesa, giornalisti, operatori umanitari, imprenditori. Si sa che noi siamo un paese che tratta e che alla fine paga. Forse siamo più esposti di altri, per questo si raccomanda agli italiani in alcune aree del mondo di assumere tutte le precauzioni necessarie per ridurre il rischio. Questo è stato motivo di grandi scontri diplomatici tra Italia e Stati Uniti, anche se oggi è meno impellente e divisivo come tema. Detto ciò non credo che un cittadino italiano sia più a rischio in aree di crisi rispetto ad un americano, un britannico o un francese».
Parlando del rientro a casa di Silvia Romano, cosa è andato storto?
«Consapevoli delle modalità con cui il sequestro della giovane si era risolto e consci del fatto che Silvia Romano si era convertita all’Islam durante la prigionia, qualcuno avrebbe dovuto consigliare che il suo arrivo in Italia avvenisse con una maggiore sobrietà, sapendo che il suo rientro sarebbe diventato divisivo per l’opinione pubblica. Il corpo di Silvia Romano ha diviso e agitato in modo osceno un pezzo della popolazione italiana e parte irresponsabile della nostra classe dirigente, soprattutto perché si tratta di una giovane donna».
Non crede che col tempo i grandi gruppi terroristici possano smettere di diventare perseguibili e acquisire piena legittimità di esistere dato che ci sono paesi che pagano per i riscatti?
«Ci saranno sempre indagini e strumenti penali nei paesi occidentali, liberi di perseguire le organizzazioni terroristiche. Anche nel caso di Silvia Romano sono stati aperti dei fascicoli importanti. È evidente che in una guerra di tipo asimmetrico le cellule terroristiche con le loro strutture in punti diversi del mondo rappresentano minacce difficili da contenere, se non impossibili, ma è sempre stato così. Io penso che in tutta questa vicenda andrebbe fatta un’operazione di maturità e verità, così da non trasformare i prossimi casi di rapimenti in saghe televisive».