Non c’è più divertimento a giocare a “Bu-bu-settete” con la mascherina. Ormai riconosci i miei occhi e ridi. Ora le nostre passeggiate pomeridiane le trascorri tra canzoni e dita in bocca. La strada che percorriamo è quasi sempre la stessa, ma a te non importa. Ogni volta è un’esperienza nuova. Di suoni, colori, odori. Curiosa, ti guardi intorno e capisci che non sono le rassicuranti mura di casa.
Cara Matilde, cosa risponderò quando mi chiederai di raccontare i tuoi primi mesi di vita? Forse partirei da quella strana mattina del 10 marzo. «Purtroppo tempo non c’è», così si era espresso la sera precedente il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Troppi i casi di contagio e le vittime da Coronavirus in pochi giorni. Era il momento di chiudere tutti i servizi non essenziali. Tra stupore e rassegnazione, partiva il lockdown italiano. Tante le domande che ci ponevamo la mamma ed io, mentre costeggiavamo l’acquedotto Felice lungo via del Mandrione. L’incertezza per una vita stravolta si mescolava alla rabbia e a un senso di impotenza. Vedevamo sogni e progetti futuri presi a calci da uno stupido virus. Per fortuna tu dormivi nel passeggino, innervosita dal sole che provava a svegliarti. In quel momento il 30 gennaio sembrava così lontano. Eri nata alle 22 e 24, dopo una lunga attesa. E ubriachi di gioia avevamo festeggiato il tuo arrivo nel mondo, con baci e abbracci. Adesso tutto questo non era più permesso. Gli amici e i nonni non avrebbero potuto vederti, né tenerti in braccio per un po’. Dovevamo proteggerti, saremmo stati solo noi tre.
Così è iniziata la nostra quarantena. Ogni giorno trascorreva lento e sornione, con una routine sempre uguale ma frenetica. Era come se il tempo venisse misurato con due clessidre diverse. Tra lezioni del Master online e consegne dei lavori, mi affacciavo alla nostra quotidianità per preparare il pranzo o sbrigare le faccende domestiche. Era l’occasione per una coccola o una pernacchia sulla pancia. Quando mi mancavi troppo, invece, indossavo il marsupio e ti tenevo sul mio torace, spegnendo microfono e telecamera dello schermo. Quanti articoli scritti con te che spingevi i tasti del PC. E quante chiamate con i colleghi, a cui partecipavi strillando, mentre decidevamo un titolo SEO, un sommario o un tweet. Era una continua corsa per riuscire a rispettare gli impegni. Un ritmo che però mi sfidava a trovare una calma, un’altra dimensione, quando ti tenevo fra le mie braccia. Era il momento in cui tutte le preoccupazioni e i problemi dovevano rimanere fuori dalla porta. C’eravamo solo noi due.
Mentirei se ti dicessi che ci sono sempre riuscito, che non ci sono state situazioni complicate. La stanchezza e il nervosismo a volte portavano me e la mamma a pesanti litigi. Alcune sere il tuo pianto, la difficoltà ad addormentarti erano la spia di un clima che ti agitava. Allora bisognava rallentare, ripartire, riprovare. E in quei chilometri percorsi tra il corridoio e la cucina, ti dondolavo, sussurrandoti canzoni e melodie che tanti anni fa suonavo col violino. Quante notti ci siamo risvegliati sul divano, con il televisore acceso. Era la mia resa dopo numerosi e inutili tentativi di metterti nella culla. Ma non mi dispiaceva, perché stringerti forte e sentire il tuo respiro regolare mi dava coraggio. Ogni volta che ero in difficoltà ripartivo da quel profumo di latte che emanavi. Allora capivo che ce l’avrei fatta, che sarei riuscito a portare avanti il nostro rapporto, la storia d’amore con la mamma e la mia scommessa professionale, che un giorno ti racconterò.
I giorni passavano e la bella stagione faceva capolino, prendendosi gioco di noi. Rispetto a una routine sempre uguale, tu crescevi e cambiavi. Il primo bagnetto, le “chiacchierate” mattutine e la scoperta del pollicione. Così come i vestitini ormai piccoli, le ciglia e i capelli che si allungavano. Il tuo volto, la tua espressione, ogni mattina erano diversi. Tra ninne nanne, poppate e pannolini, ti sottoponevi a vere e proprie conferenze stampa con nonni, parenti, amici. Nelle videochiamate fissavi curiosa lo schermo del cellulare, chiedendoti cosa significassero quelle immagini urlanti. Molto meglio una passeggiata tra le piante del giardino condominiale o sul terrazzo, dove guardavamo i tetti della città e finivi per addormentarti. E che montagne da scalare le visite mediche e i vaccini. Con il tuo cappellino da elfo affrontavi il viaggio, piangendo disperata, mentre due individui a volto coperto ti costringevano a stare nel passeggino. Al ritorno a casa dormivi per ore, mentre io, tra un capoverso e l’altro, ti spiavo e provavo con lo sguardo a indovinare i tuoi sogni.
Cara Matilde, non mi importa della stanchezza, né della fatica. Ogni sorriso che mi lanci è la ricompensa più grande. Una sensazione così forte, che non so descrivere. Vorrei vederti presto camminare, cadere e rialzarti in un parco pieno di bambini. Vorrei che i nonni ti leggessero una fiaba ogni volta che tu lo desiderassi, tenendoti sulle loro gambe, senza avere il timore di sfiorarti. E vorrei che l’unica mascherina fosse quella per il tuo primo vestito di Carnevale, di colore rosso e posizionata sugli occhi.
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