«Non serve una laurea in medicina per interpretare questo referto: immunoglobuline G (IgG) negative, immunoglobuline M (IgM) negative. Quel mio amico dottore mi ha spiegato la differenza. I primi sono gli anticorpi della memoria, con cui il nostro corpo ricorda la malattia. Di solito compaiono due settimane dopo il contatto con il microrganismo e, una volta che si è guariti, rimangono per un tempo prolungato. Gli altri, invece, indicano un’infezione in atto. Non posso avere la certezza, ma le probabilità di essermi imbattuto nel Coronavirus sono scarse».
Carlo ha venticinque anni e vive a Roma. È uno dei tanti studenti fuori sede che fino al 4 maggio sono rimasti bloccati in città a causa del lockdown. Prima di tornare nella “sua” Nocera Inferiore, in Campania, ha deciso di sottoporsi al test sierologico.
L’idea gli è venuta lo scorso 12 maggio, leggendo il bollettino ufficiale della Regione Lazio sul percorso di esecuzione e registrazione di questi esami diagnostici, che per i privati cittadini sono facoltativi. Secondo il documento, per definire un’avvenuta esposizione a SARS-CoV-2 servono le immunoglobuline G, ottenute con un prelievo di sangue venoso. Poiché mancano dati definitivi sulla velocità di comparsa degli anticorpi, in caso di positività alle IgG scatta l’obbligo del distanziamento sociale, anche a domicilio. Il passo successivo è avvisare il proprio medico e farsi prescrivere il tampone nasofaringeo. Questo è previsto in una delle postazioni drive in della Asl di competenza, senza scendere dalla macchina. Infine, occorre mantenere l’isolamento fino alla comunicazione della risposta. Oltre ai centri pubblici, a Roma sono più di 60 le strutture private dove fare il test, al quale è possibile aggiungere anche la ricerca delle immunoglobuline M. Tutti i risultati vengono comunicati ai sistemi regionali per gli studi epidemiologici.

«Non vedo mamma e mia sorella da oltre tre mesi. Ma non ho agito con impulsività, perché avevo paura di metterle in pericolo. Perciò ho scelto un laboratorio nel quartiere Tiburtino, dove ho abitato nei primi anni di università. Non c’era fila e in breve tempo ho concluso l’iter. Dopo poche ore mi è arrivato il referto via mail. Da una parte sono dispiaciuto di non esser venuto a contatto con il virus. Sarebbe stato un sollievo attribuire il raffreddore delle scorse settimane a COVID-19, anche se questa informazione non mi avrebbe dato nessuna “patente di immunità”. Dall’altra, secondo le nuove leggi, avrei dovuto effettuare il tampone e rimanere in isolamento fino al responso, posticipando il mio ritorno. Mi sono informato e ho scoperto che anche le IgM hanno bisogno di qualche giorno prima di comparire nel sangue e in alcune persone può esserci un ritardo della risposta. Per questo motivo, una volta a Nocera, mi metterò in quarantena, rimanendo a debita distanza dai miei cari. Non potremo abbracciarci, ma, almeno, parleremo guardandoci negli occhi. Ho già preparato le valigie».
Un’iniziativa che non è una novità per alcuni centri. «Ciò che dal 12 maggio è cambiato, è l’atteggiamento della Regione Lazio». È quanto sostiene il professor Claudio Giorlandino, ginecologo, Direttore Sanitario del laboratorio diagnostico Altamedica Medical Center, nel quartiere Parioli di Roma.
«In un primo momento ignorava i privati. Ora, invece, pretende notizie, che dobbiamo raccogliere in un database e comunicare su una piattaforma online. Ma noi effettuiamo i test sierologici già da tempo. A marzo abbiamo eseguito un’analisi epidemiologica su un campione di 617 romani, dal quale è emerso che solo il 5% dei soggetti risulta aver contratto il Coronavirus e che il 95% è ancora a rischio di infettarsi.
Dopo il bollettino regionale le richieste non sono aumentate in maniera significativa. Le persone si sono mostrate disciplinate nel seguire le regole e non si sono verificati disordini, grazie anche al percorso previsto per il tipo di indagine. Infatti, chiunque voglia fare l’esame, deve accedere a un edificio adiacente a quello principale e sottoporsi a un triage, un sistema che stratifica i pazienti in base al rischio di essere affetti da COVID-19. Per prima cosa va compilato un questionario, in cui si dichiara l’assenza di sintomi in atto e di contatti con soggetti positivi. Poi vengono misurati dal personale sanitario due parametri vitali: la temperatura corporea e la saturazione arteriosa. Quest’ultima indica la percentuale di ossigeno trasportata dall’emoglobina ai tessuti dell’organismo. Si utilizza il pulsossimetro, un dispositivo delle dimensioni del caricabatterie per cellulare, che viene posizionato su un dito. L’intervallo di normalità varia dal 97% al 99%. Per valori inferiori, il soggetto viene mandato a casa e si contatta il medico curante, nel sospetto di una compromissione degli scambi respiratori dovuta al Coronavirus. Gli individui che eseguono l’esame, invece, dopo due ore possono sapere se le immunoglobuline G sono positive o negative».
Sulla gestione dell’emergenza sanitaria, il professor Giorlandino non nasconde il proprio disappunto. «A mio parere, esiste un problema di fondo: si confonde l’autorizzazione con la validazione. Nel primo caso si tratta di un permesso disciplinato da norme europee. Tutti i test usati nel nostro Paese hanno bisogno di tale requisito. La validazione, invece, fa riferimento a un sistema interno, che qualunque laboratorio dovrebbe adottare. Noi lavoriamo così. Ogni volta che arrivano nuovi kit diagnostici, la nostra equipe provvede a controllarli.
Per questo motivo non condivido la strategia della Regione. Più che valutare quante sono le persone positive, avrei investito le risorse in un altro modo, cercando di limitare i contagi con un atteggiamento più aggressivo. Cosa che non ho riscontrato. Sapete perché le autorità sanitarie non consentono a noi privati di fare i tamponi, l’unico metodo diagnostico certo? Rispondono che non ci sono reagenti a sufficienza. Mi sembra banale. Centri di eccellenza di biologia molecolare come il nostro li mettono a punto da oltre trent’anni. Pur non avendo il marchio della Comunità Europea, sono realizzati e validati secondo le linee guida del Centers for Disease Control And Prevention, l’ente americano di controllo della salute pubblica. In una situazione come questa non capiscono che qualunque strumento è importante. Perché il Ministero della Salute non ci ha precettato durante la fase 1? Avremmo potuto dare il nostro contributo. Hanno permesso di lavorare al neolaureato senza abilitazione, è assurdo non autorizzarci ad eseguire indagini con validazione».

Nel bollettino della Regione Lazio, accanto al nome di ogni struttura compaiono i termini ELISA e CLIA. Non sono nomi propri di donna, bensì acronimi inglesi delle tecniche usate nei test sierologici. Ce li ha spiegati il dottor Alessandro Vinciguerra, biologo, responsabile del laboratorio di analisi cliniche presso la Clinica Madonna della Fiducia, nel quartiere San Giovanni a Roma.
«Il principio delle metodiche è simile, fondato sul legame tra anticorpo e antigene, una sostanza che il nostro corpo riconosce come estranea. La differenza è strumentale. In sintesi, ELISA (che tradotto significa saggio immunoassorbente legato a un enzima) produce una sostanza colorata, rilevata da uno specifico macchinario. La chemiluminescenza o CLIA, invece, si basa sull’emissione di un segnale luminoso durante una reazione chimica. Noi utilizziamo quest’ultima. È più affidabile, perché possiede un grande vantaggio: la ditta produttrice del kit fornisce anche la strumentazione specifica. È quello che si definisce un sistema “chiuso” e permette un livello di standardizzazione molto importante nella diagnostica».
Alla domanda su quale sia il beneficio rispetto al test rapido, il biologo non ha dubbi: «La goccia che si estrae dal dito contiene componenti che possono alterare l’affidabilità dell’esame. Invece con il prelievo venoso si ricava il siero, la parte di sangue priva di cellule e fattori della coagulazione. È vero che quasi tutti i pazienti sono negativi al test, ma se vogliamo fermare il contagio dobbiamo individuare anche quei pochi asintomatici, che potrebbero far ripartire la diffusione del virus. Inoltre, i dati che otteniamo oggi potrebbero essere informazioni utili fra qualche mese. Per questo speravo in un maggior afflusso di persone negli ultimi giorni»

Intanto Carlo è in viaggio. «Siamo in cinque su un autobus da cinquanta posti. Nonostante ciò, indosso guanti e mascherina. Non manca molto, tra poco sarò di nuovo in famiglia. Già so che mamma non tratterrà l’emozione, e, forse, una lacrima scapperà anche a me. Una cosa è certa, non manterrò il distanziamento dalla parmigiana».