Alle 23:30 del lunedì sera della seconda settimana di “Fase 2” la stazione Termini a Roma appare ancora deserta e silenziosa, quasi spettrale. A parte il tossire sordo di numerosi senzatetto sdraiati in fila fuori Piazza dei Cinquecento non è possibile percepire alcun rumore. Si tratta di quei cittadini, e in piccola parte anche di cittadine, che non hanno potuto vivere il lockdown della “Fase 1” tra le mura di casa, perché un’abitazione non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa insieme al lavoro o alle poche entrate mensili.
«Da ex pizzaiolo pagato in nero per più di un anno fino a metà marzo 2020 sono riuscito a “campare” gestendo bene ciò che guadagnavo, permettendomi un affitto (anche questo in nero) in una casa minuscola condivisa con altre sette persone. Ma da quando ho perso il lavoro e il mio locale non è andato avanti nemmeno con il delivery, dopo tre settimane avevo già terminato tutti i risparmi», dice Fabio, 42 anni, separato con 2 figli lasciati in una piccola cittadina del Sud Italia. È circondato da senzatetto stranieri che non conoscono la lingua italiana se non qualche espressione, ma condivide con loro lo spazio notturno della stazione da poco più di due mesi. «In alcuni momenti ho vissuto tutto con ansia, mi sono ritrovato solo senza nemmeno gli aiuti di volontari sconosciuti. A stento mi sentivo osservato dalla polizia che passava di tanto in tanto, e se non fosse stato per gli avanzi di prodotti in scadenza ai supermercati, forse sarei morto di fame».
Alle decine di nuovi senzatetto nella capitale si aggiunge anche chi ha avuto la strada come casa già da tempo prima dell’esistenza e della diffusione del nuovo coronavirus. Tra questi c’è Natalia, senzatetto di 63 anni nel centro di Roma da sette anni, ormai volto noto per chi frequenta Campo Marzio. Anche quando le strade centrali della capitale erano deserte, Natalia non ha mai smesso di dormire sola fuori un ingresso secondario della Basilica di Sant’Ignazio di Loyola, meta turistica in tempi di normalità. «Mi sono goduta un silenzio che non avevo mai potuto ascoltare prima, ma quando per settimane hanno chiuso anche alcune mense per i poveri del centro ho temuto il peggio per me. Una mattina ho dovuto chiedere aiuto ai carabinieri che mi hanno portata in un centro curato dalle Missionarie della Carità (l’ordine delle suore fondato da Madre Teresa di Calcutta, ndr). Sono rimasta lì una settimana, da pochi giorni sono di nuovo sulla mia strada di sempre», dice mettendo in ordine una pila di vestiti già pesanti per la calda primavera romana.
A conferma di queste storie è possibile abbinare i dati raccolti da un’indagine portata avanti dagli uffici centrali della Caritas italiana, che ha chiesto a metà dei suoi centri diffusi capillarmente su tutto il territorio nazionale come fosse cambiata la situazione dei poveri con l’esplosione del coronavirus nel paese. Ciò che è emerso è che il 98% dei centri intervistati ha risposto di aver notato un incremento sostanziale del numero dei nuovi poveri che hanno fatto ricorso ai servizi di mensa e di consegna di pacchi alimentari quasi ogni giorno, a fronte della perdita di lavori poco retribuiti o del tutto irregolari. Secondo un calcolo della Caritas sono stati circa 38.500 i nuovi cittadini (sia senzatetto che domiciliati) che hanno chiesto aiuto, una media di 470 assistiti in più per ciascuna diocesi. Un dato positivo però c’è: secondo lo stesso monitoraggio, dall’inizio della diffusione del coronavirus in Italia nel 59,4% dei centri Caritas sono aumentati i volontari giovani under 34, impegnati nelle attività e nei servizi a sostegno dei poveri, che hanno consentito di far restare a casa i volontari over 65. 42 tra questi stessi sono stati anche contagiati dal virus, soprattutto in Veneto e Lombardia.
«Se non ci saranno delle serie scelte di riforma totale del nostro ordinamento economico il mondo non potrà mai rialzarsi. Abbiamo detto in questi 3 mesi “siamo tutti sulla stessa barca” ma la realtà è che troppi sono rimasti fuori dalla barca: lo sforzo dell’umanità deve essere quello di recuperare chi sta per annegare o chi è già annegato», dice a Zeta don Benoni Ambarus, direttore della Caritas per la diocesi di Roma e da sempre sacerdote vicino a Papa Francesco. «Le persone che ci chiedono aiuto sono aumentate in modo esponenziale in tutta Italia. Anche dopo la fine del lockdown sono pochi i poveri che sono ripartiti. I lavoratori in nero sono fermi a quella che io chiamo la “Fase 0 della vita sociale”».
«Sono arrivata alla conclusione che in “Fase 2” sono pronta a svolgere qualsiasi tipo di lavoro manuale, sto cercando di farmi conoscere in giro», dice S., transessuale di 36 anni di origini venezuelane, da 9 anni a Roma. La sua unica fonte di guadagno prima era la prostituzione privata, soprattutto nel quartiere Appio-Tuscolano in cui vive, ma da quando è cominciata la pandemia ha perso tutti i suoi clienti, tanto da essere costretta a recarsi ogni giorno alla mensa per i poveri di una grande parrocchia in via Tuscolana. «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che oggi avrei vissuto in queste condizioni avrei riso fortissimo», dice sorridendo seduta sulla panchina centrale di Piazza dell’Alberone con una mascherina rosa sul volto. «Non ci resta che aspettare e sperare che ogni giorno diventi migliore di quello precedente».