«Abbiamo poco tempo per parlare, tra un’ora scatterà il coprifuoco in tutta la città e abbiamo già rischiato in modo pesante due giorni fa», dicono con la voce in preda all’agitazione Tyler e Morris, 26 anni, al momento disoccupati, entrambi maestri di musica privati per bambini. I due giovani afroamericani di New York sono in macchina e parlano insieme in vivavoce mentre è sera e tornano a casa a Brooklyn, dove incontreranno altri amici per darsi appuntamento per le proteste del giorno dopo e organizzare il necessario. «La polizia di New York non è stata dura come ci aspettavamo, anche se durante le proteste siamo stati fermati da due agenti sotto copertura perché avevamo il volto interamente coperto. Ci hanno trattenuto nei loro uffici per due ore ma ci hanno mostrato rispetto per quello che è accaduto, e ci hanno lasciato andare quando abbiamo spiegato loro che non avevamo nulla a che fare con chi stava distruggendo le strade della città», spiegano. «Con noi c’erano bianchi, caucasici, ispanici, soprattutto giovani: speriamo che da questo stato di frustrazione perenne nel quale i neri vivono da secoli stavolta potremmo uscirne davvero uniti, ma non grazie alla politica, ma ai movimenti popolari che chiedono giustizia dal basso per George e tutte le vittime dei soprusi razziali».
Giovani, sì, perché è soprattutto di millennials che si tratta: la gran parte dei manifestanti delle proteste che hanno affollato oltre 100 città negli Stati Uniti sono di età compresa tra i 16 e i 30 anni. Come Uziah, 19 anni, anche lui afroamericano cresciuto a Brooklyn, oggi studente di biochimica alla State University of New York: «Provo frustrazione e tristezza da molto tempo, e la morte di Floyd ne è la conferma. Sento di essere cresciuto con amici tolleranti, di origini diverse dalle mie, ma non credo più che gli USA siano il paese del sogno americano, dell’uomo coraggioso e forte. Penso alle mie origini africane e a volte dico ai miei genitori che sarebbe il caso di cercare il luogo dal quale proveniamo e tornare sul continente africano in cerca di nuova prosperità sociale, più umana», dice dopo essere tornato dalle proteste di Manhattan. «Ho più fiducia nella mia generazione ma non è facile avere la mia età da cittadino americano nell’America di Trump del 2020».
Nick, 25 anni, vive invece a Pittsburgh, Pennsylvania, lavora per una ONG che sensibilizza i cittadini a votare e a partecipare in modo attivo alla politica locale e nazionale, questione molto sentita dati i grandi numeri di astensione al voto. Nei mesi scorsi ha fatto campagna attiva per il democratico Bernie Sanders, candidato alle primarie per le presidenziali USA: «Almeno 4 mila partecipanti hanno preso parte alle manifestazioni non violente di Pittsburgh, anche se alcuni hanno cominciato a distruggere vetrine di negozi e macchine della polizia», spiega Nick mentre ci parla durante una sua pausa a casa dallo smartworking. «Anche se sono bianco faccio parte di un movimento più ampio che vuole che ci sia una liberazione totale di tutte le persone oppresse in questo paese: gli afroamericani, i lavoratori sottopagati e sfruttati, le persone transgender e le vittime del razzismo. Ero sorpreso per quanti teenagers erano presenti in queste proteste, tanti liceali raggruppati. Avrebbero tutti voluto Sanders alla Casa Bianca, e tutti desiderano un grande cambiamento. Ma che sia reale stavolta».
«Voi europei non potete capire determinate dinamiche: non sapete cosa sono secoli di schiavismo legalizzato, violenze e omicidi alla luce del sole e superiorità della razza istituzionalizzata», ci dice invece Suzy, studentessa di letteratura inglese alla Vanderbilt University di Nashville, Tennesse, da 2 mesi a casa in lockdwon a Houston, Texas. «Alcuni pregiudizi e comportamenti ereditati dal passato sono ancora vivi in troppi americani. George Floyd ne è l’ennesima dimostrazione: le mie amiche afroamericane al college fanno molta più fatica di me nel cercare tirocini prima della laurea, soprattutto negli stati del Sud. Purtroppo hanno qualità di assistenza sanitaria inferiore alla mia e molte fra loro lavorano con turni massacranti per pagarsi le rette, mentre per noi bianchi è tutto più semplice. Non so fino a che punto io sia in grado di capire la loro sofferenza per via dell’esclusione sociale, ma partecipare a queste marce mi riempie di orgoglio e speranza. Mi sento una cittadina migliore».
Parole confermate da Nichole, afroamericana, compagna di studi di Suzy a Nashville, ma nata e cresciuta nel quartiere South Side di Chicago, storica area residenziale periferica della grande città dell’Illinois da dove proviene anche Michelle Obama, moglie dell’ex presidente Barack. «Nelle proteste a Chicago non ho gridato solo il nome di George Floyd, ma di tutti gli afroamericani incarcerati che subiscono pene molto più severe rispetto ai bianchi, e in numeri più elevati; di tutti i neri che vivono disagio e povertà nelle strade a causa del coronavirus, in maggioranza rispetto a tutti gli altri cittadini americani», dice Nichole scandendo ogni singola parola al telefono con voce solenne e marcata. La 22enne studia legge e sogna di continuare i suoi studi «ad Harward, per seguire lo stesso percorso di Michelle Obama, partita dal nulla di South Side come me». E della politica di oggi – chiediamo – cosa pensi? «Non mi fido nemmeno di Joe Biden, che ha detto che i neri che non votano per lui non sono veri afroamericani. Ha mentito per troppo tempo sul ruolo che ha avuto nella nostra protezione come minoranza, ha votato per inasprire le pene dei detenuti in America, che per metà sono afroamericani nonostante noi non superiamo il 13% della popolazione. Ma sceglieremo Joe per la presidenza: il voto è un’arma troppo importante per essere sprecata».
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