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Esclusiva

Giugno 7 2020
Covid e Navajo: “Uniti come in una lunga camminata”

Alle pessime condizioni di vita nelle quali si ritrovano ogni giorno a vivere gli indiani d’America si è aggiunto anche il Coronavirus, provocando un alto numero di contagi e decessi. I dati e le voci delle comunità lo dimostrano.

Alle pessime condizioni di vita nelle quali si ritrovano ogni giorno a vivere gli indiani d’America si è aggiunto anche il Coronavirus, provocando un alto numero di contagi e decessi. I dati e le voci delle comunità lo dimostrano.

Hanno la bocca così secca che quasi non riescono più a respirare. Ingoiano la saliva e preferiscono non parlare per non aumentare il desiderio di acqua fresca. Lavare, cucinare, fare il bucato e provvedere all’igiene personale sono dei lussi. Vorrebbero prevenire il contagio da Covid-19 ma morirebbero anche senza uscire di casa.

Questo è lo stato delle famiglie navajos nell’Arizona settentrionale e in parte nei territori dello Utah e del Nuovo Messico, nella più grande riserva indiana degli Stati Uniti. Rappresentano il gruppo etnico più consistente fra i nativi americani, ma anche il più sofferente e uno di quelli più colpiti dal Coronavirus.

Il tasso delle infezioni registrato è fra i più alti al mondo e il numero di morti ha raggiunto quello di stati che hanno una popolazione 15 volte superiore rispetto ai 350.000 abitanti della riserva.
3.204 sono stati i casi registrati finora, 102 le vittime.

Secondo l’Us Census Bureau, l’attuale popolazione degli indiani d’America è di 5,2 milioni. Lo Stato con la più alta percentuale di loro è l’Alaska, mentre l’Oklahoma possiede il maggior numero di cittadini nativi in assoluto.

Le cause di un così alto tasso di mortalità per via della pandemia sono dovute alle pessime condizioni sanitarie nelle quali si ritrovano a vivere queste popolazioni e a tutti i problemi di salute che hanno sempre avuto: obesità, asma, diabete, cancro, diete povere, status socio-economici sfavoreli e secoli di razzismo.

A tali diffuse patologie croniche si è aggiunto il Coronavirus e il suo forte impatto sul sistema cardiopolmonare. Come ha scritto il Washington Post, gli indiani d’America hanno infatti una probabilità 600 volte maggiore di morire di tubercolosi e quasi 200 volte di più di morire per il diabete, rispetto ad altri gruppi. Inoltre, più di un quarto degli over 65 non possiede un’assicurazione sanitaria.

In un articolo su Democracy Now, il dottor Sriram Shamasunder, professore associato di medicina all’Università della California ha affermato che il Covid ha colpito duramente la Navajo Nation anche a causa «del sistema sanitario sotto finanziato». Queste comunità vivono infatti solo delle loro attività senza fare affidamento sulla tassazione. Molti gruppi poi, dalla fine degli anni Settanta, hanno puntato tutto sulla costruzione e gestione di case da gioco d’azzardo (bingo e casinò, soprattutto in Florida e California) per assicurarsi delle entrate consistenti. Attività che poi sono state frenate dal lockdown.

Il servizio sanitario indiano si è affidato soprattutto alle organizzazioni native e alle loro strutture sanitarie come l’Indian Health Services (IHS)  per rintracciare i contagi.
La restante parte è stata gestita da organizzazioni native urbane, che hanno scelto di auto-denunciare i pazienti affetti da coronavirus al governo federale. Questa sovrapposizione di competenze ha in più casi sottostimato la diffusione della pandemia all’interno delle comunità.

Il sistema sanitario indiano sconta anche una serie di ritardi che aggravano la condizione attuale: internet spesso non arriva in tutti i luoghi, molti cittadini non posseggono uno smartphone e il sistema di catalogazione elettronica dei pazienti è fermo agli anni Ottanta.

Anche per questo le strutture ospedaliere e i laboratori dell’IHS non sono in grado di effettuare in autonomia i test diagnostici, che vengono invece inviati ai laboratori del sistema sanitario nazionale dotati delle necessarie certificazioni. Il problema è che quelli provenienti dalle comunità native finiscono in fondo alle liste d’attesa e i risultati giungono dopo settimane, in una fase d’emergenza in cui ogni ora è fondamentale.

Washington non dialoga direttamente con le comunità tribali ma affida tutta la responsabilità ai governi locali. Questi a loro volta costituiscono un panorama eterogeneo. Dove c’è maggiore integrazione, i navajos riescono ad accedere alle strutture non-IHS e possono contare anche su fondi maggiori; lì dove però le comunità sono piccole e poco integrate, la priorità, soprattutto in materia sanitaria, spetta alla popolazione locale.

Per superare la crisi pandemica, sono stati introdotti degli incentivi voluti dal presidente Trump e approvati dal Congresso il 27 marzo, con 10 miliardi di dollari destinati agli indiani d’america; ma in un articolo del 13 maggio il Messaggero riporta la critica del presidente della Navajo Nation, Jonathan Nez, contro le autorità statunitensi: “Dei dollari promessi dal governo, la tribù non ha ancora ricevuto neanche un centesimo”.

Un’assenza di fondi che non è una novità: da anni le promesse di Washington non sono state mantenute e il caso coronavirus rappresenta solo l’ennesima conferma.
Invece di forniture mediche, il centro sanitario “Seattle Indian Health Board” ha ricevuto solo scatole di sacche bianche sterilizzate per inserire cadaveri. Nessun tampone e nessun dispositivo di protezione individuale.

In un articolo dell’Ansa, il presidente Nez spiega “Noi non ci arrendiamo. Ci sosteniamo a vicenda. I nostri antenati che vegliano su di noi sono orgogliosi di quello che stiamo facendo: ci stiamo aiutando l’uno con l’altro come durante una lunga camminata”.

Il quotidiano on-line “Riforma.it” ha riportato una dichiarazione di Kathy Mitchell, un’anziana di chiesa dell’Arizona che ha spiegato: “Tre generazioni possono convivere in una famiglia, in una stessa casa. Questa crisi ha esaltato molti problemi che sussistono da tempo. Molti di noi sono cresciuti dovendo andare in città di confine per comprare il cibo. Siamo costretti a spostarci di continuo”.

Il Presbiterio del Grand Canyon nella riserva Navajo sta lavorando con il programma di aiuti di emergenza Covid-19 del governo locale per aiutare le famiglie bisognose. Sono stati raccolti dei fondi e 200 scatole per alimenti.

 “Questa è stata una straordinaria riunione di comunità, con 18 diverse chiese che hanno partecipato alle operazioni di soccorso», ha dichiarato Brad Munroe, dirigente del presbiterio. 

I pastori Chris Woodard e David Joynt hanno gestito tutta la logistica, aiutando i collegamenti e lo scambio di informazioni fra le varie tribù.

Altri aiuti sono poi arrivati dall’Irlanda e da nove volontari di Medici senza frontiere, che per la prima volta sono sbarcati negli Stati Uniti. Nel team erano anche presenti 3 infermiere e ostetriche, uno specialista in servizi igienico-sanitari, due logisti e un promotore specializzato nell’educazione alla salute della comunità. Jean Stowell, a capo del team di MSF che si occupa dell’emergenza coronavirus negli Usa, ha spiegato a CBS News che la situazione dei Navajo era particolarmente grave: “Questa gente ha un rischio molto più elevato di complicazioni da Covid, perché non ha accesso alla varietà di opzioni che rendono possibile l’auto-isolamento. Non ci si può aspettare che stiano in quarantena se devono guidare per 100 miglia per procurarsi cibo e acqua”.

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