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Esclusiva

Giugno 19 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 20 2020
Cinema e razzismo, la tetralogia dell’odio

Quattro film, quattro modi diversi di intendere la discriminazione.

Perché non ci uccidono

«Crescere come il figlio di un grosso proprietario di una piantagione del Mississippi pone un uomo bianco con tutta un’abbondanza di facce nere. Nel vederle tutti i giorni mi chiedevo sempre una cosa: perché non ci uccidono?»
Le bianche mani ingioiellate di Mister Candy stringono un teschio per i bulbi oculari. Leonardo Di Caprio non è Amleto, e il quesito esistenziale inscenato assume i torbidi contorni dell’“essere superiore, o essere inferiore”. C’è brutalità nei gesti, negli sguardi, nelle parole. C’è brutalità nella sottigliezza di un ragionamento imbevuto di una scienza che scienza non è. La violenza è un ingrediente imprescindibile nei film di Quentin Tarantino, ma in “Django Unchained” questa non è solo affrescata per donare allo spettatore una selvaggia catarsi emotiva, ma viene vivisezionata con la stessa meticolosità chirurgica con cui lo spietato Mister Candy seziona il teschio del suo vecchio tutore, uno schiavo nero domestico di nome Old Ben. L’intento è quello di mostrare ai suoi commensali la risposta alla domanda della sua vita: perché non ci uccidono? Perché una “razza” sfruttata, schiavizzata e maltrattata non si ribella contro i propri oppressori? La risposta risiederebbe nel cranio, in tre particolari fossette che, secondo «la scienza della frenologia», negli uomini e nelle donne nere si troverebbero nell’area del cervello associata al servilismo e alla sottomissione, mentre negli individui bianchi sarebbero poste in quell’area dedicata alla creatività. È una dissertazione da brividi: emerge la consapevolezza dello sfruttamento da parte dello schiavista e se ne tratteggia una giustificazione pseudoscientifica che cancella ogni traccia di morale e di umanità. I nazisti non inventeranno nulla quando, più di un secolo dopo l’epoca in cui è ambientato il film, proclameranno le leggi razziali e teorizzeranno la supremazia ariana, applicandola con inumana freddezza. È il razzismo nella sua forma più pura e pericolosa, quella che si autoproclama “scientifica”, che deresponsabilizza gli esseri umani, che li libera dal peso della coscienza trasformandoli in massacratori senza scrupoli.

La rabbia sociale è storia americana

«Dobbiamo aprire bene gli occhi. Ci sono più di due milioni di immigrati clandestini che dormono sulla nostra terra stanotte. Questo Stato ha speso 3 miliardi di dollari l’anno scorso per l’assistenza a persone che non hanno il diritto di stare in America. A chi gliene frega? Al nostro governo non gliene frega. Sulla Statua della Libertà leggi “date a me gli stanchi, gli affamati e i poveri”, beh sono gli americani ad essere stanchi, affamati e poveri e finché non ti prendi cura di noi, chiudi quel cazzo di libro!».
Quanti oggi si sorprenderebbero di ascoltare un discorso simile nell’America trumpiana del nuovo millennio? Ma nella terra dei liberi e dei coraggiosi, certe parole non sono state mai davvero inusuali, e nel 1998 raccontavano una storia, una storia americana come tante.

Testa rasata, svastica sul cuore: Derek Vinyard è il personaggio che ha regalato a Edward Norton l’immortalità cinematografica nella pellicola divenuta ormai un cult, “American History X”. Uscito più di vent’anni fa, conosciuto e ammirato in tutto il mondo, il film diretto da Tony Kaye narra la discesa negli inferi e la risurrezione ideologica di un giovane neonazista della periferia di Los Angeles, in un quartiere ormai alla mercé di coloro che definisce “una massa di porci criminali, di parassiti che hanno scambiato gli Stati Uniti per il paese della cuccagna”. Immigrati afroamericani, immigrati asiatici, il razzismo di Derek nasce da una profonda rabbia sociale e si riversa contro i capri espiatori di tutti i torti subiti e delle vicissitudini economiche della sua vita e di quella della sua famiglia. Iniziato ai valori suprematisti bianchi dai discorsi del padre, un vigile del fuoco ucciso da uno spacciatore afroamericano durante un’azione anti-incendio, il giovane finisce per covare e alimentare per anni un odio viscerale verso le minoranze etniche. Quello che Derek ne ricava è una condanna per omicidio volontario ai danni di un gangster nero, e la distorta ammirazione del fratello minore, Danny, deciso a seguire le sue orme. La galera rivela però l’inconsistenza della tanto celebrata “fratellanza ariana”: ciò che muove i passi degli altri detenuti neonazisti non sono affatto gli ideali, ma l’odio, l’ignoranza e l’opportunismo, che non impediscono loro di fare affari con gli ispanici e di aggredire lo stesso Derek non appena questi decide di rivoltarglisi contro. La solidarietà e l’amicizia che Derek si aspettava di trovare nei camerati, arriva da due afroamericani: un compagno di prigione, addetto alla lavanderia, e Sweenie, il preside del liceo di Danny.
Come Derek scoprirà a proprie spese in un finale drammatico e sconvolgente, ciò che nasce dall’odio non può che essere altro odio. La chiusura verso chi è diverso, il rifiuto di conoscere i problemi dell’altro, genera silenzio, rancore, guerra. Ma il film denuncia anche il fallimento del grande sogno americano di costruire una società aperta, libera, multiculturale. La ricerca della felicità è di continuo ostacolata dalle ingiustizie sociali. Guardare oltre le tragedie quotidiane, mantenere la lucidità di non affogare in una lotta tra poveri diventa un esercizio impossibile senza adeguati strumenti culturali. E così non si possono trovare soluzioni a una condizione infelice finché ci si pone le domande sbagliate. Come Sweenie ricorda a Derek: «Tu devi farti la domanda giusta: credere nell’odio ti ha reso la vita migliore?».

(Dis)integrazione

Il pick-up accosta lentamente al marciapiede, il vecchio Kowalski apre lo sportello e scende in strada, l’incedere stanco ma sicuro, lo sguardo fisso sui quattro bulli afroamericani intenti a infastidire una ragazzina di origini coreane. «Avete mai fatto caso che ogni tanto si incrocia qualcuno che non va fatto incazzare? Quello sono io».
Gran Torino, film del 2008, è l’ennesima pellicola che perpetua la leggenda senza fine di Clint Eastwood. Questa volta il “biondo” degli spaghetti western irrompe sulla scena con la faccia di un vecchio razzista, misantropo, malato, deluso dalla vita e dalle persone. Vive in un mondo in cui non si riconosce più, gira armato. Alle sue spalle ci sono decenni di storia americana, c’è una guerra di Corea vissuta in prima linea per onorare il proprio Paese, c’è una famiglia di figli irriconoscenti del tutto privi di valori, la morte della moglie amata, un tumore ai polmoni e un quartiere trasformato in un ghetto di asiatici, afroamericani e ispanici, con cui ogni dialogo è semplicemente impossibile. Eppure i vicini non sono poi così male come sembra. La famiglia Hmong, di origini vietnamite, si mostra ospitale e generosa. Si instaura un’amicizia col giovane Thao, un ragazzo «senza macchina, senza lavoro, senza ragazza, senza futuro e senza coglioni» ma animato da una grande generosità e da un profondo senso di responsabilità che suscita a poco a poco l’ammirazione del vecchio. Il rapporto tra i due realizza una comunicazione apparentemente impossibile, ma alla fine ognuno imparerà dall’altro una lezione preziosa: il ragazzo capirà come comportarsi “da vero uomo” e come farsi rispettare, mentre il vecchio scoprirà la ricono­scenza e la solidarietà di un popolo straniero e l’importanza della tolleranza, che è alla base dell’integrazione fra culture differenti. L’amicizia e la profonda stima di Kowalski per Thao porteranno il vecchio a sacrificare sé stesso per garantire al ragazzo un futuro migliore, libero dall’ombra criminale del cugino teppista.

A caccia di stereotipi

Zootropolis è una grande città dove il concetto di prede e predatori è stato superato e dove tutti gli animali conducono una vita piena e felice. Dietro un’apparenza di rispetto reciproco e di tolleranza, di apertura e possibilità, ogni animale sembra però destinato a svolgere il ruolo sociale affibbiatogli da Madre Natura: il corpo di polizia municipale è composto da tigri, rinoceronti, bufali, ghepardi. A conigli e roditori spetta il compito di coltivare ortaggi in campagna, e poi chi mai si fiderebbe di una volpe? Rompere il muro dei pregiudizi e degli stereotipi diventa una vera e propria sfida, lo sa bene la coniglietta Judy, determinata più che mai a realizzare il sogno di diventare una poliziotta. Dopo un inizio difficile, le si presenta la grande opportunità di indagare sul caso di una lontra scomparsa, aiutata dalla volpe Nick, un personaggio a sua volta schiavo del senso comune che lo vuole inaffidabile e scaltro. L’indagine rivelerà il piano machiavellico di una “docile” pecora, desiderosa di mettere in cattiva luce gli animali predatori risvegliando la loro natura selvaggia, con lo scopo di dare il potere alle prede.
Vincitore del premio Oscar come miglior film d’animazione del 2017, Zootropolis mostra al pubblico, con ironia e intelligenza, tra scene esilaranti e altre più riflessive, un aspetto del razzismo sottovalutato perché particolarmente incrostato nelle abitudini di ciascuno di noi: la categorizzazione degli individui per stereotipi. Il credere che “chi nasce tondo non possa morire quadrato”. Una convinzione talmente radicata da essere assurta a proverbio, a coscienza popolare, quasi fosse innocua. Eppure i limiti che essa impone ai singoli sono inimmaginabili, sia in termini di mentalità che di concrete possibilità. È forse il primo germe del razzismo, da cui scaturiscono tutte le peggiori metastasi.

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