Per gli atleti è tutto o niente. Dopo mesi di sacrifici, la festa dello sport diventa in pochi secondi l’occasione della vita. Franco Menichelli lo sa, le Olimpiadi le ha vissute. Ginnasta, classe 1941, di medaglie ai Giochi ne ha conquistate cinque. E a casa sua, nel 1960, si è messo al collo un sogno di bronzo. Per ben due volte, a soli 19 anni.
«Son passati tanti anni, ma è difficile dimenticare le emozioni di quei giorni spensierati, che hanno avvicinato lo sport alla modernità. Per me sono state due settimane di clausura, in cui ho vissuto in stretta compagnia della mia camera (ride, ndr). Passavo il tempo tra i pensieri e qualche lettura, nonostante capissi poco. La testa era altrove, avevo davanti solo le gare».
Dopo anni difficili per la ginnastica conquista due medaglie. Credeva in un risultato del genere?
«No, il nostro era uno spirito olimpico puro, di partecipazione e divertimento. Non pensavamo di poter arrivare a quel livello, ma dopo gli esercizi obbligatori abbiamo capito che potevamo fare qualcosa di buono nella gara a squadre. Poi, quando sono salito sul palco per fare il corpo libero, c’erano da battere atleti molto più agguerriti e famosi di me. Volevo solo far bene e sono arrivati due bronzi. La ginnastica italiana doveva crescere e Roma è stata un punto di partenza».
Com’è vincere di fronte alla propria gente?
«A dire la verità sul palco c’erano più stranieri che italiani, però è stata un’emozione immensa. Roma è la mia città, quella in cui sono nato. È stata una favola incredibile, le due medaglie hanno premiato tutto il lavoro fatto».
Qual era il clima nella squadra azzurra?
«Ero così giovane che in quei Giochi vedevo solo allegria, c’era un rapporto di stima e fratellanza reciproca. Stavo davvero bene con i “compagni di medaglia” Giovanni e Pasquale Carminucci, Gianfranco Marzolla, Orlando Polmonari e Angelo Vicardi. Insieme abbiamo fatto un gran lavoro. Ma in generale c’era un contatto continuo, non c’erano divisioni. Ci conoscevamo tutti».
La sua fotografia di Roma ’60?
«C’è un’immagine indelebile nei miei ricordi. Racconta di cinque ragazzi che guardano con il fiato sospeso un atleta che lavora alla sbarra. Era la nostra gara a squadre e quello era l’ultimo esercizio. Fu fatto bene, finì benissimo. 72 esercizi su 72 senza errori. La concentrazione fu la nostra forza».
Qualche ricordo di quelle giornate?
«C’era tanta tensione e mi son goduto poco la parte olimpica perché l’organizzazione aveva previsto le gare di ginnastica alla fine. Non potevamo abbassare la guardia, ma un giorno abbiamo fatto una scappata per vedere l’atletica e Livio Berruti ha vinto i 200 metri. È stata un’impresa eccezionale».
A Tokyo, nel ’64, la consacrazione con la vittoria di altre tre medaglie olimpiche. Qual è la più bella?
«È banale dirlo, ma la medaglia d’oro vinta in Giappone nel corpo libero non ha eguali, arrivare davanti a tutti è una soddisfazione indescrivibile».
Nel ’68, ai Giochi di Città del Messico, arriva l’infortunio in un momento cruciale della carriera. Sente di essere stato privato di una grande occasione?
«No, gli infortuni possono capitare e l’ho accettato. Fa parte della storia degli atleti. Forse non dovevo partecipare a quelle Olimpiadi, ma è andata così».
Oggi segue ancora lo sport?
«La ginnastica è sempre nel mio cuore. Mia moglie (Gabriella Pozzuolo, campionessa italiana nel 1964 e olimpionica di Città del Messico, ndr) ha una società di ginnastica a Roma e vado a darle una mano. Guardando i giovani in palestra mi capita ancora di dare qualche consiglio. Per me è un divertimento».
È stato il primo atleta a gareggiare a corpo libero indossando i pantaloncini corti. Un innovatore…
«Sì, mi ero stancato dei pantaloni lunghi, erano scomodi. A Roma sono stato costretto a metterli perché chi gareggiava senza era penalizzato. Poi ho detto basta, serviva un pizzico di modernità anche in questo sport. Adesso sono corti e colorati e l’ambiente della ginnastica è un po’ più vivace».
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