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Esclusiva

Dicembre 7 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Gennaio 20 2021
Prima che il Conte parli

Le conferenze stampa del premier sono un appuntamento fisso, atteso e temuto (tra qualche battuta). Un infinito déjà-vu, un meccanismo da spezzare

Mi sembra quasi il Giorno della marmotta. Proprio come in «Ricomincio da capo», la commedia in cui Bill Murray si sveglia ogni mattina e rivive la medesima giornata. Sa cosa accadrà e chi incontrerà per strada, e tutto diventa prevedibile. Un infinito déjà-vu, un meccanismo da spezzare. La stessa sensazione che mi porto dietro da mesi, seguendo gli sviluppi dell’epidemia e le misure che vengono prese. Il copione è ormai consolidato, si ripete con poche variazioni: il gioco degli annunci e le indiscrezioni sui giornali, le bozze che circolano e il Dpcm finale; l’attesa di Conte all’ora dei pasti, l’angoscia e le risatine insieme; il suo compiacimento e il paternalismo più trito, e quel senso di inadeguatezza finale.

Dall’annuncio del primo lockdown, il 9 marzo, le conferenze stampa del premier sono diventate un appuntamento fisso, atteso e temuto. In grado di trasmettere la gravità della situazione prima, momento iconico e grottesco poi. L’ultima diretta da Palazzo Chigi il 3 dicembre, con il presidente che ha presentato i contenuti del Dpcm Natale. Prima però uno stillicidio di voci e di retroscena, pagine e pagine di giornali piene di ipotesi su misure e spostamenti. Cosa si potrà fare e cosa invece no?

Un metodo ormai assodato dietro a cui si nasconde Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio: uno bravo ma non bravissimo, che ha portato a livelli superiori – di cinismo direi certamente – tecniche di news management che nuove non sono. In via informale, Palazzo Chigi fa circolare le bozze del nuovo decreto e accende le voci di tutti noi, quindi osserva le reazioni e ci «abitua» alle nuove misure. Poi arriva la conferenza stampa chiarificatrice di Conte. È un meccanismo di marketing consolidato: si sonda il mercato con dei rumor e poi si prende la decisione. Se la resistenza è forte e il prodotto non piace, si cambia.

Il «metodo Casalino» mi pare oliato e prevedibile. Ben studiato. Serve per rafforzare il premier e mantenerne alto il consenso, che tuttora rimane sopra il 50%: l’effetto rally ‘round the flag lentamente svanisce ma ancora resiste. E i media, cosa devono fare giornali e tv? Dobbiamo pubblicare bozze e fughe di notizie, dando per prese decisioni che ancora non lo sono? O aspettare il Dpcm finale, senza renderci «complici» di questo meccanismo? «Una notizia va sempre data» mi ripete qualcuno, «Non siamo semplici megafoni» mi risponde qualcun altro. Ma sono voci minoritarie: il dibattito sull’opportunità di pubblicare o meno non è neanche nato, lo facciamo in automatico senza chiederci perché.

Tutte le conferenze stampa di Conte iniziano in ritardo. Sono annunciate per l’ora di cena e poi slittano sempre: 20.15, 20.30, e si fanno le dieci passate. È una regola non scritta che scatena ironie, ma ha uno scopo preciso: far aumentare l’attesa e a far crescere l’audience del premier. Che finalmente inizia a parlare. Poche parole per illustrare le nuove misure e poi il discorso prende una piega precisa, ogni volta inaspettata e prevedibile ogni volta. Conte ondeggia tra il compiacimento passato e lo smarrimento futuro, si attorciglia in inviti a non mollare, a tenere duro; mi spaventa e rassicura nello stesso giro di frase.

Nelle parole del premier non ci sono dati di fatto, previsioni verificabili, niente scadenze e neppure impegni. C’è esitazione, ritrosia, volontà di tastare un terreno che non si vorrebbe percorrere. C’è un linguaggio burocratico e a tratti vuoto, e la capacità di auto-complimentarsi ogni volta: la scorsa settimana perché entro Natale tutte le regioni diventeranno gialle. Una mancanza di autocritica che va a braccetto con toni paternalistici non nuovi: «Daremo una settimana alle palestre per adeguare i protocolli di sicurezza. Se questo avverrà, non ci sarà ragione di chiuderle» diceva Conte il 19 ottobre; «Natale è un momento di raccoglimento spirituale e farlo in tanti non viene bene» spiegava il premier il 14 novembre.

A dieci mesi dall’inizio della pandemia i politici italiani non hanno trovato il tono giusto, il timbro comunicativo adatto alla crisi in corso. Giuseppe Conte ricorda sempre quanto duramente lavori, «pancia a terra», senza tregua, mentre si rivolge a noi con richiami vaghi all’unità e al rispetto delle regole. Ma non ci tratta da adulti responsabili, non spiega mai come stanno le cose. Fa dirette che non dicono nulla, superate in pochi giorni da un nuovo decreto e una nuova diretta. Nella conferenza stampa di giovedì non ha speso una parola sui mille morti del giorno, e nessun giornalista gliene ha chiesto conto.

Già, noi giornalisti e le nostre domande. Quando il premier finisce di parlare, la palla passa ai giornali e alle tv: domande sul Mes e sulla fidanzata di Conte, su Autostrade e sul Recovery Fund. Poi tocca agli equilibri nella maggioranza e al possibile rimpasto di governo. Ci sarà oppure no? «Accidenti! Anche lei, quante domande» non si trattiene lo stesso Conte. E in effetti le richieste non mancano, ma c’è qualcosa che stona in tutti questi argomenti: lo scollamento tra le domande dei colleghi e la realtà dei numeri – 662 ieri, 564 oggi, più di 600 domani? Quesiti innocui e a volte inopportuni, in una conferenza stampa dedicata all’emergenza.

Le domande non sono concordate, ma sono scelte le testate e stabilito è l’ordine degli interventi. Il «metodo Casalino» colpisce ancora, ma Rocco fa solo il suo mestiere: in modo efficace e spregiudicato. Giudicare ciò che un giornalista fa o non fa, invece, è più facile e più rischioso. Da fuori i meccanismi e i piccoli interessi scompaiono, tutto si appiattisce e tutto pare scontato. Mi dico che avrei fatto di meglio e poi che forse no: che cosa ne so io, in fondo? Ma la speranza c’è. Una domanda sul Dpcm in più e una sul cenone in meno, una in meno sulla legge elettorale e una in più sulle terapie intensive. «Buonasera presidente, oggi i morti sono stati 993. Evidentemente qualcosa non sta funzionando. Che cosa?».