Figlio. Della Sicilia e del suo tempo. Leonardo Sciascia nacque un secolo fa a Racalmuto, in provincia di Agrigento. “Nanà” per tanti, scrittore pungente e versatile, offrì nelle sue opere una lettura mai banale della realtà. «Dietro la sua figura ufficiale – racconta Anna Maria, sua secondogenita – si nascondeva però un uomo semplice. Un principe azzurro adorato da tutte le donne della sua vita, capace di regalare piccole e grandi attenzioni a chi stava al suo fianco».
«Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria».
Intellettuale di primo piano nel Novecento italiano ed europeo, lo scrittore formò la propria coscienza sui testi degli illuministi – da Voltaire a Montesquieu, passando per Beccaria e Pietro Verri – cercando fin dalle prime opere di scandagliare le contraddizioni umane con particolare riferimento alla sua terra, come si legge nel saggio – sintesi autobiografica dell’esperienza vissuta da maestro elementare – “Le parrocchie di Regalpetra” (1956). «Era narratore sempre, a casa raccontava qualsiasi cosa con passione. Aver avuto dalla vita il dono di un padre così è stato un privilegio».
Il successo arrivò negli anni Sessanta. La forma? Il romanzo. Una fusione efficace ed essenziale di arte, politica, storia e letteratura. Da “Il giorno della civetta” (1961) a “Ciascuno il suo” (1966), senza dimenticare “Il consiglio d’Egitto” (1963), Sciascia disegnò una fase tutta nuova del giallo italiano, animata da un senso di giustizia disfattista e a tratti impotente, coniugato a un realismo conoscitivo – con punte umoristiche – di matrice pirandelliana.
«La famiglia è lo Stato del siciliano». [da “Il giorno della civetta”]
Negli anni, la notorietà non scalfì le sue antiche convinzioni. «Disse sempre di voler vivere come un impiegato del catasto e per abitudine non parlò mai dei libri scritti, se non per rispondere a chi chiedesse delucidazioni. Di conseguenza, affrontai la vita come la figlia di una persona modesta, consapevole di essere una principessa del suo magico mondo». Per comprenderne l’impostazione, basta un aneddoto: «Stefano Vilardo, compagno di scuola e suo migliore amico, raccontò che un giorno per strada un ragazzo chiese a papà se fosse il noto scrittore. Rispose che in tanti avevano notato quella somiglianza…».
Anna Maria ricorda che dietro quell’uomo di spessore, si nascondevano bontà e l’amore per le piccole cose. «L’eccessiva prodigalità era un difetto e, al tempo stesso, uno dei suoi grandissimi pregi. Leggeva molto, andava in giro per librerie, antiquari, gallerie d’arte. E poi c’erano gli amici, con cui faceva gite pomeridiane in cerca di specialità culinarie. A Pioppo gli involtini, a Cinisi il profiterole, ad Altofonte la cassata al forno, a Lercara i babà…».
Dopo il trasferimento a Palermo e la pensione, all’inizio degli anni Settanta i tempi divennero maturi per nuove riflessioni sull’Italia contemporanea e il ritorno al genere poliziesco, con “Il contesto” (1971). Iniziò in quegli anni l’impegno politico attivo, che portò Sciascia a candidarsi con il Partito Radicale nelle elezioni del 1979 (dopo una prima esperienza da consigliere comunale a Palermo, tra le file del PCI). Eletto deputato, restò a Montecitorio fino al 1983 e si occupò dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo brigatista (un anno prima aveva pubblicato “L’Affaire Moro”). Membro della bicamerale antimafia, sviluppò una critica aspra al potere costituito. In questo senso, destò scalpore la pubblicazione – sul Corriere della Sera – dell’articolo “I professionisti dell’antimafia”, nel gennaio del 1987, con riferimento al magistrato Paolo Borsellino e al sistema delle promozioni in magistratura: «Tra loro – spiega Anna Maria – non ci fu però mai alcun contrasto. Con le sue parole papà non criticò Borsellino, ma il modo di procedere del Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo quell’articolo si incontrarono e passarono ore piacevoli a discutere».
«Credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza». [da “Gli zii di Sicilia”]
Anticonformista scettico e libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, la lettura delle sue pagine appare oggi profetica nell’anticipazione di scenari moderni. È quanto traspare, per esempio, dal saggio “Morte dell’Inquisitore”, pubblicato per la prima volta nel 1964. Un lavoro in divenire, che esemplifica il suo atteggiamento nei confronti della realtà e della scrittura: «Parlava sempre con noi di famiglia di ciò che scriveva, abbiamo seguito da vicino tutti i suoi libri. Disse spesso di aver dedicato più tempo delle altre a quest’opera, mai considerata davvero finita. Sperò sempre di trovare qualche nuovo documento, un’ulteriore illuminazione». E con la verità, la sua penna – mossa da un desiderio incessante di indagine – consegnò alla storia il grande amore per la Sicilia. Casa sua.