Cesare Pavese e George Orwell, due grandi autori del Novecento, coetanei, muoiono entrambi giovani nel 1950, Orwell a 46 anni, Pavese a 41. Entrambi su un letto. Il primo il 21 gennaio allo Universal College Hospital di Londra, in seguito alle complicazioni di una tubercolosi di cui soffriva da ormai tre anni, il secondo il 27 agosto, suicida in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, dove viene trovato riverso dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero.
A differenza di altri autori più longevi e vissuti quindi anche fino a ridosso degli anni Novanta del secolo scorso, all’opera di questi due autori e di molti altri, il 2021 impone una data di scadenza precisa, la cessazione dei diritti detenuti da case editrici, eredi e fondazioni sulla loro produzione letteraria.
Nel nostro Paese una casa editrice può stampare e diffondere l’opera di uno scrittore senza dover corrispondere i diritti qualora siano passati almeno 70 anni dalla data della sua morte. Il diritto d’autore è protetto dalla Legge 633/1941 e la sua tutela affidata alla SIAE – la Società Italiana degli Autori e degli Editori. Spesso si tratta di 70 anni e qualche mese, dal momento che il diritto d’autore scade sempre il 31 dicembre e le opere entrano nel pubblico dominio a partire dal primo gennaio successivo.
Negli Stati Uniti, invece, il punto di riferimento è la data di pubblicazione dell’opera. Cambia la durata della tutela, che è maggiore: 95 anni. Tutto nasce dal “Sonny Bono Copyright Act”, dal nome del cantante che sostenne il disegno di legge approvato nel 1998, che estese la durata da 75 a 95 anni dopo una lunga battaglia che vide l’appoggio e l’attività di lobbying adoperata dalla Disney che si trovava in prossimità della scadenza dei diritti su Topolino.
Da questi primi giorni del 2021 saranno libere da copyright tutte le opere letterarie scritte da autori europei morti nel corso del 1950. Per gli editori che hanno un occhio per queste cose, capire che c’è un evidente vantaggio da sfruttare, è abbastanza immediato.
Per quanto riguarda Orwell, stiamo parlando di un autore ancora da milioni di copie, che ha scritto 21 libri, alcuni meno famosi e noti, altri dei veri e propri best-seller da classifica internazionale. Un autore la cui eredità è andata molto oltre il respiro corto della sua biografia, estendendosi fino ai giorni nostri perché in molti casi premonitrice di tendenze, minacce e storture che hanno caratterizzato la società dei consumi e lo sviluppo tecnologico della civiltà in cui ci troviamo immersi.
George Orwell era lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, un nome molto meno conosciuto e che compare quasi solo sulla sua tomba nel cimitero di Abingdon, nei pressi di Oxford. Uno che nella vita visse come sulle montagne russe: figlio di un funzionario anglo-indiano delle colonie, passò dagli studi a Eton all’indigenza, finendo senza un soldo in tasca a fare il lavapiatti a Parigi, quasi barbone a Londra, fino ad approdare nel 1936 a Barcellona arruolandosi e prendendo parte attiva tra le file del POUM, il Partido Obrero de Unificación Marxista, una delle varie brigate che combattevano il franchismo, esperienza e peripezie da cui trarrà lo splendido Omaggio alla Catalogna, che racconta la guerra civile spagnola dall’interno (Orwell fu anche realmente ferito da un colpo quasi mortale alla gola e ci mise molto a riprendersi) in un modo tragico, surreale e ironico allo stesso tempo.
«Era la prima volta che mi ritrovavo in una città dove la classe operaia era al potere. Persino i lustrascarpe erano stati collettivizzati», scriverà nell’opera catalana, «si sentiva diffusa nell’aria una gran fiducia di rivoluzione e di futuro, l’impressione di essere improvvisamente emersi in un’era di uguaglianza e libertà». Le cose finiranno in maniera molto diversa rispetto alle tensioni iniziali ma rimarrà un’opera giovanile fondamentale per comprendere la sua tensione verso un socialismo utopico e una critica ferma nei confronti di ogni tipo di totalitarismo, scevro dei concetti di destra e sinistra e che gli causò sempre un certo alone di scetticismo attorno. Togliatti in una celebre stroncatura lo definì “poliziotto coloniale” e “solo l’ennesima freccia aggiunta all’arco della cultura borghese, capitalistica e anticomunista”. Attacco che gli era stato rivolto circa il suo famosissimo “La fattoria degli animali”, del 1945, una spietata critica allegorica dello stalinismo ambientata in una fattoria.
Finora i suoi diritti in Italia erano detenuti dalla Mondadori, che infatti aveva già deciso negli scorsi mesi di giocare di anticipo sulla concorrenza e pubblicare due nuove traduzioni dei suoi due romanzi più noti, degli scrittori Nicola Gardini (1984) e Michele Mari (La fattoria degli animali).
Se pensiamo a 1984 non stiamo parlando di un libro datato e dimenticato, ma ancora letto e comprato in quantità sorprendenti, studiato nelle scuole, e che sembra non perdere mai la propria attualità. Nel 2020 ha venduto 78mila copie solo in Italia. Pertanto la lista delle case editrici che si impegneranno nelle nuove edizioni è lunga, Einaudi, Feltrinelli, Newton Compton, Garzanti e Sellerio. E dato che “tradurre è tradire”, sarà curioso vedere come gli addetti ai lavori si saranno districati nella vasta giungla dei neologismi impiegati nei testi dello scrittore britannico, dal “Big brother”, alla “Neolingua”.
Un libro i cui temi distopici e il cui linguaggio furono alla base di molte riletture contemporanee. Proprio nel 1984 a partire da idee ed estetiche del romanzo, la Apple realizzò uno spot per il Super-bowl e qualche anno fa anche un moloch del nostro tempo come Amazon aveva usato addirittura alcune parole di Orwell per giustificare il proprio operato, un uso quantomeno improprio definito dai membri della sua Fondazione come «quanto di più vicino ci possa essere al Ministero della Verità e al suo doppio linguaggio: capovolgere i fatti per far passare un pezzo di propaganda».
La questione non riguarda solo i libri, ma anche la loro trasposizione in altra forma d’arte, sia essa musica, teatro o cinema. Tra i vari precedenti illustri ci fu anche il tentativo di David Bowie di portare sullo schermo negli anni Settanta proprio una versione in musical di 1984, che dovette però scontrarsi contro il muro dell’opposizione sollevata dalla vedova di Orwell, Sonia, che aveva espresso il suo profondo disaccordo nei confronti del progetto.
Le questioni relative al copyright di questo autore contengono anche aneddoti interessanti, come quando la stessa Fondazione Orwell venne accusata di comportarsi in maniera “orwelliana” per aver chiesto a un sito americano che aveva messo in vendita magliette con la scritta “1984” di rimuoverle immediatamente, accusandolo di violazione del diritto d’autore per aver messo in vendita materiale non autorizzato.
Il 2021 sarà anche l’anno della cessazione dei diritti delle opere di Cesare Pavese, autore torinese che ha legato fin dal principio la sua opera alla casa editrice Einaudi, che negli anni della sua produzione era il fulcro dell’attività di molti intellettuali antifascisti italiani. Il suo, al pari di quello di Elio Vittorini, fu un impegno incredibile nella trasmissione della letteratura americana nel nostro Paese durante la guerra e dopo, a partire proprio dalla decisione di realizzare la propria tesi di laurea su Walt Whitman. In un’Italia ancora impaurita dagli anglicismi e annegata nel ricordo macabro dell’epurazione linguistica e letteraria operata dagli anni del fascismo, fece conoscere agli italiani autori come Hemingway, Steinbeck e Melville e influenzò autrici e traduttrici come Natalia Ginzburg e Fernanda Pivano.
Einaudi Einaudi Einaudi Feltrinelli Feltrinelli Newton Compton Newton Compton Rizzoli Rizzoli
I suoi romanzi, da La casa in collina – caposaldo della letteratura della Resistenza – all’ultimo La luna e i falò, assieme alla sua produzione poetica, diventano così di dominio pubblico, il che comporta che ciascuno potrà fruirne liberamente, e che aumenterà esponenzialmente la loro presenza sugli scaffali delle librerie italiane, come dimostra la moltiplicazione delle edizioni in uscita già in questi primi giorni dell’anno, ma anche, e intesa in senso positivo, la sua definitiva consacrazione a “classico” della letteratura italiana.
Pavese è uno scrittore che parte con l’intenzione di fare il neorealista e si scopre quasi suo malgrado scrittore lirico, simbolico, altamente metaforico, e al pari di altri come Pasolini, Fenoglio e Vittorini, un grande utilizzatore del ricorso al tema del mito. A questa inclinazione “epica”, seppur spogliata dei classicismi inutili, si accompagna il costante rimpianto, la memoria, il ritorno e la nostalgia. Da I mari del sud a La luna e i falò, passando da Paesi tuoi o La casa in collina, è difficile non imbattersi in personaggi che ricordano i tempi passati, che tornano nei luoghi della loro infanzia o che tornano a casa.
Ha saputo rappresentare, con le sue poesie, i suoi romanzi, i suoi diari, nella prima metà del Secolo, l’uomo desolato, l’uomo solo, lacerato, in contraddizione con sé stesso e con il mondo che è personaggio tipico dell’intero ‘900 non soltanto italiano ma europeo.
Tra gli altri titoli o autori che nell’anno corrente vedranno liberalizzazioni simili c’è l’intera produzione del Trilussa, ma anche Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, The cave girl, The bandit of Hell’s bend di Edgar Rice Burroughs, The Making of Americans: Being an History of a Famil’s Progress di Gertrude Stein, Manhattan Transfer di John Dos Passos, Dark Laughter di Sherwood Anderson e Il dottor Arrowsmith di Sinclair Lewis. Opere per le quali ci si augura che seguirà un rinnovato interesse così come per Orwell e Pavese, nella speranza di una diffusione potenziale ancora maggiore per questi “classici”, intesi nella definizione calviniana di «libri che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire».