Non augurerei il coronavirus nemmeno al mio peggior nemico. “Guarda che te lo sei preso”. “Non è che l’influenza normale non esiste più”. “La sera ho sempre più di 37”. Voci che non sono la mia, ma di chi allora se sono isolata nella mia stanza?
Non voglio rubare il posto a chi ha studiato anni e anni di psicologia, la mia conoscenza si ferma al capitolo su Freud del libro di filosofia della maturità: Il discorso filosofico, grazie, i miei compagni di classe ti odiavano ma io no, e da brava secchiona, dopo sei anni, ti conservo ancora nella libreria. Voglio solo aggiungere una testimonianza tra quelle di chi ha avuto il coronavirus. Qualcuno dice: “Parla solo per migliorare il silenzio”, non sarà così, ma mi difendo: non sto parlando, sto scrivendo.
Freud, maschilista e sessista, ringrazio anche te. Anche se la psicanalisi condotta da me medesima – suddetti psicologi, non sto facendo alcun paragone col vostro lavoro! – durante i 27 giorni di reclusione nella mia cameretta, così banale, e da privilegiata, da avere delle scarpette di danza classica attaccate al chiodo accanto a una stampa de Le Baiser De L’Hotel De Ville di Robert Doisneau, ha più a che fare con Il Fu Mattia Pascal sorpreso alla vista del suo riflesso nello specchio che con gli elementi della psicologia freudiana, posso affermare che il Covid-19 mi ha fatto conversare con un interlocutore, psicanalista, di cui mi ero dimenticata da un po’ l’esistenza: me stessa.
Il coronavirus, oltre a togliermi per una settimana e mezzo il gusto e l’olfatto e avermi, per fortuna, solo alzato la temperatura per tre giorni, mi ha fatto srotolare la mia vita sulla scrivania, come fosse una coperta, c’erano dei buchi, mai ricuciti, alcuni allargati dal tempo, altri non sapevo nemmeno ci fossero. Ho avuto la possibilità di prendere un ago e un filo e provare a metterci delle toppe.
Ogni giorno, dal remoto delle mie quattro mura, facevo del mio meglio proseguendo il mio stage e attendevo i momenti più emozionanti della giornata, i pasti, perché mi permettevano di aprire la porta per un secondo, sempre con guanti e mascherina, per afferrare un oggetto proveniente dall’esterno, il vassoio, sul quale mia madre e mia sorella, con una cura incredibile, mi lasciavano il cibo. Ho passato le giornate a confrontarmi con loro, complici preziose, che hanno reso meno difficile il difficile. Le ho passate in lunghe videochiamate con i miei affetti e ho scoperto una passione per il cinema indiano.
Ma una giornata è lunga. Non me ne accorgevo quando ero libera di uscire, quando lo scorrere del tempo era frenetico, quando si dice “Non ho un attimo” (il mio migliore amico dice: “Livia, a meno che tu non sia il Presidente della Repubblica – e a seconda delle notizie del giorno utilizza altre figure – non puoi dire che vai di fretta o non hai tempo”), ma soprattutto non me ne accorgevo quando ero circondata da altri esseri umani. La solitudine è sottovalutata.
Senza 27 giorni di psicanalisi solitaria non avrei capito che lo slogan “Trova un momento per te” non è solo una scritta colorata a caratteri pop per chi vive crisi di mezza età. Ho imparato invece che i momenti per me stessa mi servono, per innaffiarmi come essere vivente singolo. Per conoscere le voci diverse delle mie personalità che si parlano e che in amorevole contestazione mi costituiscono.
No, non auguro a nessun* di ammalarsi di Covid-19. Voglio solo provare a dire che se sei malat*, e fortunat* a reggerti in piedi, non sei sol*: hai te, ed è tutto quello di cui hai bisogno.