La metamorfosi del Movimento 5 stelle passa per le alleanze europee. Dopo l’adesione all’EFD di Nigel Farage nel 2014, il tentativo di ingresso nei liberali e, infine, il flirt con i Verdi, ora i 5 stelle ci riprovano. Lo fanno, convinti che l’esperienza di governo con il Pd possa spalancargli le porte verso il secondo gruppo dell’Europarlamento: quello dei Socialisti e Democratici. L’obbiettivo è quello di uscire dalla formazione dei Non iscritti, da quell’irrilevanza frutto della repulsione verso ogni ideologia. «Siamo pronti ad intraprendere questo percorso», dice il vicepresidente del Parlamento europeo Massimo Castaldo. «Ma prima – precisa – è importante che ci sia un confronto con il Pd nel pieno rispetto dei tempi e delle modalità che riterranno necessarie». Anche perché, tra i democratici, aleggia lo scetticismo.
Il motivo sta nelle regole del Parlamento europeo. Regole che penalizzano fortemente chiunque decida di non aderire ad alcun gruppo parlamentare. I 5 stelle rientrano in questo caso: dal 2019 sono relegati nella formazione dei Non iscritti. Una posizione, questa, che li costringe ad un ruolo marginale rispetto agli altri partiti dell’Eurocamera. Da qui nascono i dubbi del Pd, dal timore che l’adesione dei grillini possa essere solo una questione di comodo. «I gruppi politici europei non sono dei tram su cui salire a piacimento, sono una destinazione che presuppone adesione sul piano identitario e programmatica», ha dichiarato a Repubblica Pierfrancesco Majorino. Ma non tutti al Nazzareno, sede del partito, la pensano come l’eurodeputato. Brando Benifei, anche lui eletto al Parlamento europeo, respinge la lettura del collega: «Credo ci sia stato un reale processo di avvicinamento da parte del Movimento 5 stelle. Ma prima di un ingresso nel nostro gruppo è necessario che avvenga una discussione approfondita, viste le implicazioni che porterebbe questa scelta»
I dubbi di Majorino vengo respinti anche da Castaldo: «Si sarebbe potuto parlare di opportunismo se avessimo sempre votato in maniera difforme rispetto ai socialisti, ma così non è. Anzi, c’è sempre stata molta affinità nelle votazioni». In effetti, secondo lo schema di voto pubblicato su Repubblica, l’affinità col gruppo dei socialisti arriva fino al 76 per cento delle votazioni, 74 con la sinistra del Gue e addirittura 79 con i Verdi. Per questo, ora, il vicepresidente del Parlamento è convinto che l’alleanza con i S&D possa partire dai temi comuni: «Penso alla lotta contro le disuguaglianze, allo sviluppo sostenibile e alla transizione ecologica. È sulla base di questi punti che è possibile immaginare la convivenza del Partito democratico e del Movimento 5 stelle all’interno dello stesso gruppo europeo». Insomma, ripartire dai temi dell’alleanza giallo-rossa. Quelli di elencati da Giuseppe Conte poco prima di lasciare l’incarico da premier, quando sull’uscio di Palazzo Chigi si rivolse a M5s, Pd e LeU come federatore di una passibile nuova alleanza di centro-sinistra.
Nel 2014 – primo anno di legislatura per i grillini – sarebbe stato impossibile immaginare una convivenza dei due all’interno della stessa famiglia. A quel tempo i 5 stelle si trovavano ancora sotto l’ombrello dell’EFD (Europa delle Libertà e della Democrazia Diretta), la formazione nazionalista ed euroscettica guidata dal britannico Nigel Farage, uno dei fautori della Brexit. Massimo Castaldo era alla sua prima legislatura e giura che i punti in comune con i sovranisti erano quasi inesistenti. «I nostri voti in Parlamento nel precedente mandato avevano un tasso di convergenza molto basso con quelli del partito di Farage». Tanto da provare l’adesione all’Alde, gruppo liberale tra i più europeisti del Parlamento. Inutile dire che il tentativo non andò a buon fine: l’Alde si guardò bene dall’adottare un partito che faceva dell’euroscetticismo il suo primo motivo d’esistenza. Ora Castaldo arriva quasi a rinnegare quell’indole populista e antieuro del Movimento che fu: «La nostra era una collocazione innaturale all’interno di quel gruppo. A quel tempo rispettammo l’esito della votazione fatta su Rousseau, ma abbiamo sempre avuto delle riserve su quell’alleanza».
Parole che suonano come il tentativo di ricucire con un passato che sembra lontano anni luce. «E’ successo quattro anni fa», dice giustificando le avance rivolte all’Alde. «Poi bisogna dire che i liberali hanno molte affinità con il gruppo dei socialisti e questo rafforzerebbe la nostra volontà di porci come forza riformatrice e europeista». E ancora: «Siamo in totale antitesi con chi vorrebbe distruggere l’Unione e tornare ai nazionalismi». La metamorfosi è compiuta. Facile immaginare cosa avrebbe pensato Nigel Farage se nel 2014 avesse ascoltato queste parole da un europarlamentare del suo stesso partito. Ma orami è acqua passata. In mezzo ci fu anche il tentativo d’ingresso nel gruppo dei Verdi, anche questo fallito. Respinti perché – per usare le parole dell’eurodeputata Alexandra Geese – «non c’è democrazia di base. Tutto dipende da un database di proprietà esclusiva dell’Associazione Rousseau, di fatto controllata da Davide Casaleggio», ha spiegato all’Adnkronos. I Verdi sono quelli a cui hanno aderito i quattro eurodeputati grillini che a dicembre hanno abbandonato il Movimento in polemica con la gestione attuale. «Sarebbe impensabile per noi immaginare un percorso con chi è uscito dal Movimento sbattendo la porta», sostiene Castaldo.
Chiuso il rapporto con i Verdi rimangono solo i socialisti. Una prospettiva ghiotta non solo per il Movimento, che avrebbe la possibilità di uscire dall’angolo per entrare nel secondo gruppo più grande dell’Eurocamera, ma anche per chi deciderà di ospitarli. Con l’approdo dei 10 grillini, infatti, gli eurodeputati democratici salirebbero a quota 155. Un problema per il Partito Popolare Europeo, reduce della fuoriuscita di Fidesz, partito nazionalista del premier ungherese Viktor Orban. Una rottura, questa, che assottiglia lo stacco tra S&D e Ppe. Ora la differenza tra le due grandi famiglie europee si regge su una differenza di appena 20 seggi. Un problema per i popolari, primo gruppo in Parlamento, se non fosse per la Lega di Matteo Salvini: anche lei alle prese con la svolta moderata e europeista. Un cambio di passo che potrebbe sancire l’addio al gruppo sovranista e aprire le porte del Ppe. Ma, come per i 5 stelle, ad aprirgliele dovranno essere i colleghi italiani. Quelli di Forza Italia.