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Esclusiva

Marzo 7 2021
“Ibrahim? No, Je suis Mina”. Giocare a calcio da cristiani in Egitto

Costretto a cambiare nome per giocare a calcio, Mina Bendary ha raccontato a Zeta la storia di Je suis, squadra nata per combattere pregiudizi di natura religiosa

Bravura, impegno, un pizzico di fortuna. Per fare il calciatore sono imprescindibili, ma se si nasce in Egitto possono non bastare. È la storia di Mina Bendary, 24 anni, innamorato del pallone. Con un occhio alla fantasia di Ronaldinho e un altro alla classe di Cristiano Ronaldo, a giocare in terra di piramidi e faraoni ci ha provato. Non ci è riuscito. Per colpa di una religione, quella cristiana, e di «una storia che va avanti da oltre cinquant’anni».

Je suis
Mina Bendary


Talentuoso e determinato, dopo una lunga rincorsa e qualche rifiuto Mina approda all’Alessandrian Union Club nel 2015. Tanta felicità, ma un grande ostacolo. «Mi viene chiesto di giocare come Ibrahim. Mina è un nome cristiano, Ibrahim è musulmano e in Egitto puoi intuire la religione di una persona dal nome, senza troppe difficoltà. È un problema, perché nel nostro Paese i cristiani non sempre hanno avuto il diritto di giocare in club importanti o in Nazionale e quando lo hanno fatto hanno cambiato nome». 
Sei mesi da tesserato, i primi dubbi. I suoi colleghi e la chiesa lo accusano di aver accettato la situazione, senza ribellarsi. Mina medita, qualche giorno di riflessioni serve a far scattare la scintilla. Niente più razzismo, niente più discriminazioni di natura religiosa: per dire “Basta”, la strada da seguire è quella del coraggio. Nasce allora “Je suis”, tradotto dal francese “Io sono”. Una speranza. Una squadra pronta ad accogliere e a sostenere persone che hanno incontrato i suoi stessi disagi nell’inseguire un sogno. 


«È un’opportunità – spiega Mina -. Il talento, anche se cristiano, ha bisogno di un posto per svilupparsi e per combattere i pregiudizi. La mia esperienza è il punto di partenza, ho vissuto un periodo triste. Il calcio è una cosa semplice, volevo solo giocare ma mi sono sentito escluso. Dopo aver conosciuto la sofferenza, ho deciso di voler aiutare gli altri. Siamo da sempre aperti a tutti e coerenti con un’idea di base, nella nostra famiglia c’è spazio anche per i musulmani. Ci sono giocatori che non meritano di essere rifiutati e diamo loro la possibilità di credere ancora nella loro grande passione». 

Je suis


In un mondo del calcio in cui domina l’interesse economico, il club è un caso atipico. Una storia che viene dal basso, vicina alla gente. «Per adesso ci autofinanziamo grazie a un piccolo contributo pagato mese per mese dai nostri giocatori. È utile ad affittare i campi e acquistare le attrezzature necessarie». Je suis deve inoltre fare ogni volta accordi con uno dei club registrati all’EFA (Federazione calcistica dell’Egitto) per giocare sotto un altro nome in campionato. Motivo? La Lega permette solo alle squadre registrate di scendere in campo in competizioni riconosciute.


Dalla fondazione – avvenuta nel 2016 – è passato qualche anno. Pian piano è cresciuto il numero degli iscritti e sono cambiate ambizioni e prospettive. «Adesso la nostra prima squadra maschile gioca nella quarta divisione del campionato egiziano, quella femminile nella seconda lega», racconta Mina, allenatore di tutte le selezioni e per nulla intenzionato ad accontentarsi. In testa c’è un grande traguardo, da costruire col tempo: «Il sogno è ‘certificare’ Je suis come club ufficiale, non più solo come accademia o movimento, per partecipare alla Serie A egiziana». 

“Ibrahim? No, Je suis Mina”. Giocare a calcio da cristiani in Egitto


«Non arrenderti mai. Quando pensi che sia tutto finito, tutto ha inizio» disse Jim Morrison, frontman dei Doors, negli anni Sessanta. La battaglia di Mina è appena cominciata. E il coraggio non manca.