Se io fossi Simona Malpezzi, mi sentirei quantomeno a disagio.
La nuova capogruppo al Senato del Partito Democratico è stata nominata dal neosegretario Enrico Letta in sostituzione dell’ex capogruppo Andrea Marcucci. Fuori un uomo, dentro una donna, e in questo si esaurisce il motivo della scelta. Allo stesso modo alla Camera toccherà a Debora Serracchiani fare da rimpiazzo a Graziano Delrio. Mi rendo conto che il termine possa risultare fastidioso e poco edificante ma se, come dicevo, mi trovassi a vestire i panni di Simona Malpezzi, credo mi sentirei proprio così: un rimpiazzo. O al limite un simbolo, una cartina di tornasole usata per placare le polemiche su un partito che cerca con affanno di dare un senso ai valori di uguaglianza e parità di genere. Senza peraltro rendersi conto di quanto questa ricerca appaia tanto più priva di contenuto quanto più si mostra affannosa, smaniosa di rompere l’assedio dell’opinione pubblica che continua ottusamente a pretendere “qualcosa di sinistra”.
Certo, i tre ministri in quota Pd nel governo Draghi, tutti uomini, non li ha scelti Letta, quindi a lui andrà solo il merito di aver messo la toppa e non la responsabilità di aver creato il buco. Ma chi vuole essere una toppa? E perché ci riduciamo ancora a rattoppare? Non sappiamo, e forse non sapremo mai, per quale motivo Marcucci e Delrio fossero stati preferiti, come capigruppo, a Malpezzi e alle altre donne del partito. In compenso adesso sappiamo per certo un motivo fondamentale per cui le donne del Pd vengono preferite ai colleghi uomini: perché sono donne. Punto. Se a qualcuno questo suona come sinonimo di parità, allora deve avere una concezione di uguaglianza diversa dalla mia. Se la maggioranza ritiene che questo modus operandi aiuti le donne a sentirsi davvero uguali agli uomini e non pensi, piuttosto, che sia un’ulteriore e mortificante specchietto per le allodole, allora vado volentieri ad accomodarmi tra i banchi dell’opposizione, col rischio, a cui non do peso, di venire etichettato come maschilista.
Devo essere sincero: quando ho saputo della questione ministri maschi del Pd (Lorenzo Guerini, Dario Franceschini, Andrea Orlando) non mi sono indignato. Anzi devo ammettere che, se l’uragano mediatico non mi avesse fatto tremare gli infissi di casa, sarei rimasto del tutto indifferente alla vicenda, né più né meno di quanto mi avrebbe lasciato indifferente la scelta di tre ministre. E se il governo Draghi fosse stato composto da 15 ministre e 8 ministri avrei dormito la notte proprio come dormo sapendo che la distribuzione di genere è avvenuta all’opposto. Inutile aggiungere a questo punto che sarebbe per me del tutto normale se avessimo un Presidente del Consiglio donna, o se donna fosse il Presidente della Repubblica, o il Papa, o Dio.
Non vorrei essere frainteso: non vivo su Marte e sono a conoscenza delle disparità ingiuste e ingiustificate che ancora affliggono la vita di una donna in questo Paese. Non tanto a livello giuridico, sebbene soprattutto nell’ambito lavorativo persistano ancora pesanti iniquità, quanto dal punto di vista culturale. Associare una donna a un certo tipo di ruoli, mansioni e comportamenti ritenuti prettamente appannaggio dell’uomo o, al contrario, dissociarla da altri “tipicamente femminili”, è un meccanismo mentale che la legge da sola non può imporre e allora è giusto che si lotti, tutti, per un cambiamento culturale della società.
Il punto è che la lotta per l’uguaglianza di genere passa dalle rivendicazioni in termini di diritti e di inclusione sociale, ma finché verrà “concessa” a una donna in quanto tale, non sarà mai davvero riconosciuta. Quale rispetto può pretendere Simona Malpezzi dai suoi colleghi adesso? Come potrà impedire che si pensi che è stata messa lì solo perché “accidenti queste donne dobbiamo farle contente altrimenti la stampa non ci lascia in pace”?
Il cambiamento che tanto auspichiamo deve essere voluto da tutti e per tutti, non può essere parziale, perché in tal caso finirà sempre per risultare divisivo e ingiusto. Non ho idea delle capacità politiche di Simona Malpezzi, così come non le ho di Andrea Marcucci. Ma se diamo la carica di capogruppo alla donna solo perché “dobbiamo essere femministi”, stiamo commettendo un’ingiustizia nei confronti delle donne stesse e di chi donna non è. Così come avviene quando si compiono scelte maschiliste.
Rilancio con una provocazione: perché dire basta alla violenza sulle donne? Diciamo basta alla violenza punto. Quella sull’uomo è forse giustificabile? Finché nel combattere una disuguaglianza sociale ci si limiterà ad “accontentare” una minoranza (come se le donne fossero in minoranza) senza tenere in armonia quell’insieme complicato e sfaccettato che è l’intera società, non si farà altro che continuare a dividere e, di fatto, a sfavorire la minoranza di turno.
Prima di concludere vorrei scusarmi con la capogruppo democratica al Senato Simona Malpezzi. Intanto perché nessuno dovrebbe mai parlare a nome di qualcun altro, specie di fatti di cui non ha alcuna esperienza. Secondo, perché non è affatto detto che si senta offesa per il nuovo ruolo assegnatole, anzi, è probabile che Enrico Letta abbia inteso premiarla affidandole una carica tanto importante. Ho scelto però di immedesimarmi nel suo ruolo e nella sua vicenda perché la ritengo emblematica di un problema che riguarda tutti noi, non solo le donne.
Smettiamola di considerare il femminismo un problema femminile. Lottiamo tutti per una società più giusta e più egualitaria. Per tutti.
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