Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Dicembre 4 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Gennaio 20 2021
Tutte le volte che uccidiamo una donna

Una rivoluzione del linguaggio è quanto mai necessaria per avere una società più inclusiva

Si chiama Stéphanie Frappart, ha 37 anni ed è la prima donna ad aver arbitrato una partita di Champions League. È un’arbitra, non un arbitro. Non tanto perché la biologia fa di lei una donna, ma perché si sente una donna: la sua identità corrisponde all’apparato genitale con cui è nata. «Le parole sono importanti», diceva qualcuno. E allora usiamole nel modo giusto. Ma soprattutto, usiamole in modo tale che non feriscano.  

La lingua non è mai neutra. Non solo definisce, ma determina. Con essa rappresentiamo la realtà e la reifichiamo. Racchiude giudizi e opinioni. Ci permette di diffondere e assorbire cultura. Ed è con essa che manifestiamo i nostri pregiudizi. Qualunque tipo di rivoluzione ne presuppone sempre un’altra: quella del linguaggio. Perché è proprio con le nostre parole che riveliamo gli stereotipi e i pregiudizi di cui siamo intrisi. Di cui la società è intrisa.

Scrivere che Stéphanie Frappart è un’“arbitra” vuol dire non solo riconoscere che è una donna. Ma soprattutto, che una donna può ricoprire il ruolo di arbitro. Una precisazione non da poco, se si considera che certe professioni sono considerate, per ragioni storiche e culturali, appannaggio degli uomini; e che il lavoro è uno dei mezzi principali per la conquista del potere. Ricordiamolo: è sempre per ribaltare una situazione di dominio e di privilegio che si combattono le rivoluzioni.

La lingua non è mai neutra, dicevamo. Quindi ciò che non si dice non esiste; di contro, dare un nome alle cose le identifica e materializza. Ecco quindi che “direttrice”, “ministra” e “architetta” non appaiono più dei meri vezzi linguistici di chi vuole darsi un tono, ma il mezzo con cui riconoscere l’esistenza (nonché la dignità) di un genere – quello femminile – che del maschile universale ne ha fin sopra i capelli. Anche perché dietro la superiorità di un genere nella lingua si (mal)cela la superiorità di quel genere nella quotidianità.

Società sessista, linguaggio sessista. E viceversa. Un fenomeno che appare ancora più evidente se si guarda alla narrazione mediatica di femminicidi e violenze di genere. Il giornalismo dimostra di aver introiettato quella sovrastruttura che a noi femministe piace chiamare “patriarcato” e che si esplica in un linguaggio grottesco, violento e discriminatorio. E così un uomo che violenta e sequestra una donna non è uno stupratore, ma un semplice dj con il «vizietto» (Il Mattino).

L’idea alla base è quella del “depotenziamento”: svalutare il fenomeno tentando di eluderne l’aspetto socio-culturale, fornendo giustificazioni al carnefice e indebolendo la posizione della vittima. E qui, lo strumento prediletto dai mezzi di comunicazione è quello del delitto passionale.

La tendenza della cronaca è quella di soffermarsi sugli aspetti più “romantici” della vicenda: la presunta gelosia dell’abuser, la scoperta di un tradimento, il grande amore che nutriva nei confronti della donna tanto da non accettarne la separazione. Il risultato è che il lettore sarà più incline a empatizzare con il carnefice, gli riconoscerà delle attenuanti al suono di «eh, ma se lei non lo avesse tradito…».

Esemplare il modo in cui La Repubblica scelse di raccontare un caso di femminicidio del 2012: «Ha ucciso Antonella. Convalidato il fermo del fidanzato […]. Il movente passionale. Una storia d’amore molto travagliata, quella tra i due ragazzi, fatta di incomprensioni, feroci litigate, minacce e abbandoni e ritorni di fiamma. Il motivo dell’assassinio starebbe proprio in questa difficile relazione». O quello in cui Fanpage decise di parlare della morte di Melania Rea: «Quando l’amore infelice diventa omicidio». Gelosia, amore, raptus. I topos della narrazione sono sempre gli stessi.

Ma non finisce qui. Il punto di vista offerto dai media in questi casi è quasi sempre solo quello dell’uomo. Succede quando viene descritto con dovizia di particolari l’abuser (enfatizzando la vita che conduceva prima della tragedia, la normalità dei rapporti che intratteneva con amici, colleghi e vicini di casa, particolari psicologici e caratteriali…) destinando solo poche righe alla vittima. Righe che fanno perlopiù riferimento al suo stato coniugale o al tipo di relazione che aveva con il suo aguzzino. La donna è chiamata per nome (es. Melania), mentre il caso giudiziario che deriva dalla vicenda è identificato con il cognome del carnefice (es. caso Parolisi).

È una narrazione figlia di quella cultura dello stupro (rape culture) di cui le società occidentali sono impregnate e che normalizza la violenza di genere, impedendo di valutarne la portata socio-culturale. Uno stupro, un femminicidio, il victim blaming, lo slut-shaming sono tutte manifestazioni di uno stesso fenomeno: la diversa posizione in cui uomini e donne si trovano nella società, l’uno dominante, l’altra dominata.

I rischi sono due: la deresponsabilizzazione del carnefice; la sottovalutazione da parte dell’opinione pubblica del problema. Un femminicida e uno stupratore non sono reietti ai margini della società, ingranaggi malfunzionanti di un sistema integro, mosche bianche svincolate da un contesto. Anche loro fanno la spesa, portano i bambini a scuola, festeggiano il Natale in famiglia. La distinzione tra “noi” e “loro” non è così marcata come può sembrare leggendo alcuni fatti di cronaca.

Le donne vittime di violenza di genere cui un uomo ha avuto la clemenza di non infliggere il colpo mortale si chiamano “survivor”. Perché sì, sono letteralmente “sopravvissute”. Non ai pugni del compagno, agli insulti del marito o a uno stupro. Sono sopravvissute a un sistema che le vuole zitte, mansuete, docili, capaci di amare ma non di capire il vero amore. Perché se lo capissero, allora quel sistema crollerebbe. E allora sai che casino.

Sono sopravvissute ai loro familiari, ai «ma non starai ingigantendo la cosa?». Al paternalismo di chi vuole insegnare loro che nella vita le cose gravi sono altre. Ai medici che, di fronte a una faccia tumefatta, le invitano a non denunciare. «Signora, se suo marito è geloso vuol dire che a lei tiene. Se lo tenga stretto». «Signorina, lasci perdere. Un po’ di ghiaccio e di riposo, vedrà che domani si sentirà meglio». Ai giornali, che prendono le loro storie e le fanno in mille pezzi. Le decostruiscono, le sezionano senza aver cura dei sentimenti, della rabbia, del dolore.

Si parla di “femminicidio” e di “violenza di genere” proprio per puntare l’attenzione sul genere della vittima: la donna viene uccisa o stuprata in quanto donna. Perché in quanto donna, ci si aspetta da lei un certo comportamento. Se non si conforma, la punizione è inevitabile. E sì, un po’ se l’è cercata.