«Il 25 aprile non è una festa vecchia ma ha una sua forte attualità», Marcello Flores, professore di Storia contemporanea e Storia comparata alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master in Human Rights and Humanitarian Action, e autore, insieme a Mimmo Franzinelli, del volume Storia della Resistenza (2019), ha parlato a Zeta della festa della Liberazione.
Professore, perché il 25 aprile è una data da festeggiare?
Per un motivo duplice. Da una parte perché il giorno della Liberazione, di qualsiasi liberazione, in ogni parte del mondo, si festeggia, e in questo caso si tratta della liberazione dopo l’incubo del nazismo che per diversi anni colpì non solo l’Italia ma l’Europa. Allo stesso tempo nel nostro paese questa data ha segnato la possibilità di fondare per la prima volta una vera repubblica democratica. Non solo una repubblica, ma anche democratica, anche prima dei vent’anni di fascismo c’era stato un regime aveva soltanto alcuni aspetti democratici.
Il 25 aprile è una festa divisiva?
Il 25 aprile è la fine della guerra civile in Italia, questo quindi significava festeggiare per chi aveva vinto. La libertà riconquistata però veniva da un periodo di grande divisione che era destinato a durare anche negli anni a venire, non poteva rimanere confinato soltanto nella storia. Se è vero che la memoria di coloro che hanno combattuto contro la Resistenza è una memoria poco significativa, è vero anche che c’è una gran parte di persone che si sente legata a quella maggioranza, larga anche all’epoca, che preferiva attendere, stare alla finestra, non parteggiare, non rischiare di prendere una posizione. È questo quello che ancora un po’ divide, anche oggi.
Chi sono invece le persone che scelsero di prendere una posizione, come sono descritte in Storia della Resistenza?
Una generazione costretta a scegliere, con coraggio. Una scelta che in alcuni casi i partigiani hanno pagato con la vita. Le donne svolsero un ruolo fondamentale, spesso marginalizzato, lo sottolineiamo nel libro. La loro fu anche una scelta più autonoma, dato che non ebbero l’urgenza di dover sfuggire ai bandi militari di reclutamento.
Il sentimento di divisione riguardo al 25 aprile è cambiato negli anni?
Direi di sì. Quando io andavo all’università a Roma ad esempio bisognava stare attenti perché lì c’erano molti neofascisti dichiarati. È soltanto dopo gli anni Sessanta che le cose sono cambiate. Allora le divisioni erano molto più profonde, oggi possiamo dire che forse c’è un disinteresse in qualche modo diffuso nei confronti della Resistenza, mentre in passato era ancora legata a un’esperienza viva, di solo vent’anni prima, se non alle nostre vite a quelle dei nostri genitori.
Cosa rimane dopo 76 anni?
Per gli eventi molto sentiti e al tempo stesso traumatici come è stata la Resistenza, più passa il tempo, più diminuisce anche il senso di partecipazione. L’evento rimane legato più ai valori che ha potuto e saputo trasmettere. Per la mia generazione il Risorgimento non era tanto un ricordo immediato quanto quella sensazione di aver raggiunto l’unità nazionale. Così penso che oggi per la Resistenza vi sia un riferimento generalizzato al momento che ha permesso di far nascere in Italia la democrazia, senza però quella passione, quel coinvolgimento, che c’era nelle generazioni che l’avevano vissuta.
Come può la storia, soprattutto in questi casi di eventi così sentiti, far convivere la soggettività della memoria con l’oggettività del racconto storico?
Come quelli della guerra debbono avere senz’altro un ruolo predominante, ma lo sguardo storico è quello che tiene conto di tanti elementi, che sono tutti importanti per la comprensione dei fatti. Capire anche come e perché hanno agito coloro che si trovavano al potere, i criminali che hanno commesso i genocidi, capire le forme per cui si è accettata l’oppressione del regime fascista, nel caso dell’Italia per anni. La memoria da sola non riesce a restituire la complessità dei diversi accadimenti, la riflessione storica utilizza anche le memorie ma si basa su una documentazione ampia e precisa.
Il 25 aprile allora non è una festa vecchia?
No, anzi. Il 25 aprile ha una sua forte attualità. È un richiamo a un momento di scelta, di partecipazione, di cui oggi c’è ancora bisogno, per rifondare continuamente una democrazia che non si può lasciare che vada avanti per forza di inerzia, per conto suo.