«Ci sono state vittime, danni alla città, i militari si sono divisi. Ma poteva andar peggio, perché si sono affrontati in zone specifiche, senza coinvolgere civili». Ibrahim Cabdi è un medico che lavora a Mogadiscio come internista e docente universitario di Cardiologia. Laureato alla ‘Sapienza’ di Roma, ha raccontato a Zeta gli scontri iniziati lo scorso 25 aprile nella capitale della Somalia. Due settimane prima il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed ‘Farmajo’ aveva deciso di estendere di altri due anni il suo mandato quadriennale.
«È scaduto l’8 febbraio. Secondo la Costituzione, serviva il voto. A partire dal Parlamento, il cui incarico era terminato lo scorso 27 dicembre. Non si è però trovato l’accordo tra i governatori dei cinque territori federali e il presidente, sostenuto da tre di loro. Il Puntland e lo Jubaland pretendevano la rinuncia formale al ruolo di capo di Stato, ma Mohamed non ha accettato».
Netta la presa di posizione di ‘Farmajo’, soprannome che vuol dire formaggio, cibo preferito del padre. Eppure in passato l’ex amministratore presso il Dipartimento dei trasporti nello stato di New York era popolare. L’inizio della sua presidenza – il 16 febbraio 2017 – era stato accolto con colpi d’arma da fuoco celebrativi, nella speranza che portasse ristoro e innovazione. Ma le riforme per combattere la corruzione e il debito pubblico non sono state sufficienti a mascherare la sua ambizione. Così, a febbraio, l’opposizione si è ribellata e ha tentato di organizzare manifestazioni a Piazza Daljirka Dahsoon, luogo di grande valore simbolico e fino agli anni ’60 parte integrante del Parlamento somalo. Tra i protagonisti, l’ex primo ministro Hassan Ali Khayre e i due precedenti presidenti – Sheikh Sharif Sheikh Ahmed e Hassan Sheikh Mohamud – che hanno invitato le persone a scioperare, invocando elezioni legittime.
Al governo è bastata la prima dichiarazione significativa per attaccare l’albergo dei due ex leader e occupare la piazza. Sugli altri oppositori che hanno tentato di scendere in campo l’esercito ha aperto il fuoco. «La situazione è peggiorata – afferma Cabdi – al punto che i due Stati Federali in disaccordo si sono rifiutati di venire a Mogadiscio per trattare, ed Europa e Stati Uniti sono stati costretti a intervenire come garanti».
Il 12 aprile l’episodio chiave. Farmajo ha chiesto al Parlamento il prolungamento del suo mandato e la Camera bassa ha votato a favore. Le reazioni non si sono fatte attendere: il comandante della polizia di Mogadiscio Sadiq Omar Hassan lo ha definito un atto illegale. Destituito e privato dei suoi gradi, è fuggito con alcuni soldati presso la sua tribù. Da quel momento le forze armate si sono divise. Da una parte chi era a sostegno del governo, dall’altra gli oppositori di Farmajo. Anche gli ex presidenti si sono rifugiati nelle loro roccaforti. Raggiunti da altri militari ‘esterni’ (molti dei quali disertori dell’esercito), hanno occupato vari sobborghi della città.
Il 25 aprile il quadro è degenerato in scontri nei quartieri settentrionali di Sanca e Marinaya e nei giorni successivi si è risolto a vantaggio dell’opposizione, che ha conquistato una delle principali strade e 11 dei 16 distretti della capitale. Farmajo è allora volato in Congo per conferire con il presidente Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi, a capo anche dell’Unione Africana, organizzazione continentale che promuove la solidarietà tra le nazioni. Il leader congolese ha accettato la mediazione, chiedendo al Dipartimento di sicurezza dell’Unione di studiare il caso. Dopo il confronto, il prolungamento del mandato è stato ritenuto inopportuno ed è stato chiesto alla Amisom (Missione dell’Unione Africana in Somalia) di vigilare sui movimenti delle forze armate a Mogadiscio.
Per il dottor Cabdi «è stata decisiva la presa di posizione degli Stati che erano suoi alleati. Hanno dichiarato di essere contrari al prolungamento dell’incarico, perché avrebbe scatenato una guerra. Anche l’attuale primo ministro Mohamed Hussein Roble ha abbracciato questa tesi. Così il presidente è tornato in Parlamento lo scorso 1 maggio, per rinunciare all’estensione del mandato e conferire al premier la gestione delle elezioni. Farmajo è rimasto isolato, criticato dagli Stati amici, spaventato e con gli oppositori a meno di un chilometro da casa».
Da allora sono stati organizzati incontri con ambasciatori e militari dell’opposizione e il prossimo 20 maggio i cinque Stati verranno convocati a Mogadiscio per rimuovere ogni impedimento al voto. Ai soldati era stato chiesto di tornare alla base, ma le opposizioni non si sono fidate: se fossero andati via, il presidente avrebbe potuto cercare vendetta in quanto capo dell’esercito. Roble ha quindi nominato un gruppo di 11 persone per risolvere il problema. Ne è nato un accordo – firmato lo scorso 5 maggio dal primo ministro – per il quale i soldati avrebbero dovuto lasciare la capitale entro 48 ore, ma non sarebbero stati perseguitati né incarcerati, a patto di rimanere neutrali su azioni politiche future. «La sera del 6 maggio hanno iniziato a liberare le strade e sembrano intenzionati a lasciare Mogadiscio. La pace è vicina, ma è presto per dirlo. Basta armi, mi auguro sia il dialogo a prevalere», sospira Cabdi.
La peggior crisi politica degli ultimi anni, che ha avuto un forte impatto su un sistema sociale ereditato dalla Guerra Civile, che dal 1991 colpisce il Paese. Un conflitto trentennale, che ha distribuito porzioni di territorio ai clan e anche in questa vicenda ha fatto sentire il suo peso: «gli Hawiye non vogliono che Mogadiscio vada in rovina per colpa di Farmajo, che appartiene ai Darod e le cui origini sono lontane dalla capitale».
E la pandemia? In questo scenario il virus non è riuscito a incidere, come spiega Cabdi: «abbiamo subito due ondate. Una a marzo 2020, senza conseguenze importanti. La seconda, peggiore, lo scorso dicembre. Non siamo preparati, la bassa densità di popolazione ci ha aiutato, nonostante il nostro credo religioso a volte sia quasi sfociato nel negazionismo. Ora che c’è il Ramadan e le vaccinazioni sono disponibili, solo l’1% delle persone indossa la mascherina».
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