Fuad Hussein è il ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Iraq e vice primo ministro. Parla con cautela, guarda negli occhi le giornaliste e i giornalisti seduti lungo il tavolo a ferro di cavallo. Nelle pause, dopo ogni frase si inserisce Maurizio che dall’arabo riporta il discorso in italiano. Accanto a Hussein c’è l’ambasciatrice Safia Aaleb al-Souhail, sorridente, che ha accolto gli ospiti con cortesia all’Hotel Hasserl, nel cuore di Roma, a Trinità dei Monti. In sala non ci sono molti giornalisti, alcuni sono volti noti, altri corrispondenti di testate straniere, la maggior parte arabe. No video, no foto, no registrazioni. Solo i media ufficiali possono raccogliere il materiale della mattinata, noi prendiamo appunti sull’agenda.
Il ministro inizia la conferenza stampa con il resoconto dei suoi meeting in Italia. È qui da domenica: ha incontrato Papa Francesco, il ministro degli Esteri Di Maio, i presidenti di Camera e Senato, le organizzazioni internazionali per avviare progetti di cooperazione. «L’economia irachena ha subito una forte battuta di arresto all’inizio del 2020 per la crisi del petrolio, poi accresciuta dalla pandemia – spiega – Il 90% delle entrate del paese deriva dai proventi dell’industria petrolifera e più della metà è utilizzata per pagare lo stipendio ai dipendenti statali che sono troppi mentre il settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il prezzo del petrolio è tornato a salire e la situazione finanziaria sta migliorando. Abbiamo bisogno di infrastrutture, ferrovie, strade, industrie, vogliamo puntare anche sul turismo. È un buon momento per fare investimenti».
Durante l’approfondimento sul quadro economico, Hussein ricorda che l’Iraq ha pagato le società italiane Fincantieri e Leonardo per una fornitura di armi mai arrivata a causa dell’embargo che dal 1991 al 2003 ha isolato li paese dal resto del mondo. Ci sono 60 milioni di dollari – la cifra non è certa – che Baghdad vorrebbe riavere dall’Italia: «Stiamo trattando con Di Maio, di questo e dei conti correnti di alcuni rappresentanti delle istituzioni irachene che sono stati congelati».
L’Iraq degli ultimi mesi, quello che racconta Hussein, è molto diverso dall’immagine del paese che l’Occidente ha avuto per anni. «Daesh, lo Stato islamico, che dal 2014 al 2017 ha avuto in mano più di un terzo del paese, ora non c’è più. Era uno stato di combattenti che spostavano continuamente il fronte, strutturato in dipartimenti simili ai ministeri. Abbiamo dovuto lottare contro un nemico molto forte, che adesso è sconfitto. Ad essere rimasto è il pensiero, l’ideologia, che ha animato la trasformazione di un’organizzazione terroristica in uno stato che, per fortuna, gli altri interlocutori internazionali non hanno riconosciuto. Per sconfiggere le cellule jihadiste rimaste con la formazione e l’informazione abbiamo bisogno di supporto». Le truppe Nato, tra cui 1100 militari italiani, sono presenti in Iraq non più per combattere ma per addestrare le forze locali. Con gli Stati Uniti è in atto un dialogo strategico che va oltre le questioni di sicurezza e definisce anche le prossime azioni in tema di cultura ed energia.
L’Iraq è uscito dall’isolamento in cui ha vissuto per decenni, da quando Saddam Hussein ha preso il potere fino alla fine dell’Isis e passando attraverso il periodo dell’embargo internazionale che ha devastato la nazione. Adesso si sta costruendo una posizione nella diplomazia internazionale, ponendosi come mediatore culturale e religioso dei conflitti in Medio Oriente: pochi giorni fa si è svolto a Baghdad, la capitale, un incontro di avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita con il primo ministro iracheno Al Khadimi come facilitatore. Da quando c’è Biden alla presidenza degli Stati Uniti, i contrasti tra Washington e Teheran si stanno affievolendo e il calo di tensione si ripercuote sulla situazione irachena, sul cui territorio sono presenti le milizie filo-iraniane che hanno contribuito alla liberazione del paese dallo Stato islamico e che adesso puntano a sottrarlo dall’influenza occidentale. «Ci poniamo come mediatori perché i conflitti esterni si riflettono sulla società irachena, influiscono sulle questioni di sicurezza interna. Agendo all’esterno riconquistiamo la stabilità di cui abbiamo bisogno per crescere. L’Iraq è stato una terra di conflitto, con se stesso e con gli altri, per più di 50 anni».
L’appoggio dello Stato del Vaticano è fondamentale per svolgere il ruolo di intermediari. La visita di Papa Francesco, la prima nella storia di un pontefice in Iraq, ha avuto una funzione determinante nella distensione dei rapporti con l’Occidente. Il Papa è stato a Mosul, l’ultima città irachena liberata dall’Isis nel 2017, a Erbil, capoluogo della regione del Kurdistan, e ha dimostrato quanto è cresciuto il livello di sicurezza in aree che prima erano considerate inavvicinabili. «Con Erdogan possiamo utilizzare soltanto lo strumento del dialogo – conclude il ministro – C’è un problema di sconfinamento dei militari turchi dentro i confini iracheni, ma non vogliamo aprire una crisi: ci legano alla Turchia relazioni commerciali importanti e abbiamo canali aperti attraverso cui giungere a una soluzione». I militari turchi entrano, con gli aerei e via terra, nel nord dell’Iraq per colpire le aree in cui presumibilmente si nascondono i militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).
Dopo la conferenza stampa, durante il coffee break, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere il ministro Hussein e il suo staff, grazie all’ambasciatrice al-Souhail. Una mattinata importante per la diplomazia italiana e europea visto il ruolo nuovo che l’Iraq si sta ritagliando nel determinare gli equilibri in Medio Oriente.
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