“C’è dolore, c’è lutto. Molte persone non riescono a farcela, eppure mi dico: e va bene. Una delle cose che amo di più della vita è che non c’è mai un addio definitivo. Ho conosciuto centinaia di persone ed io non dico mai loro addio per sempre. Dico: ci rivediamo lungo la strada”. È Bob il filosofo di questa massima, uno dei protagonisti di “Nomadland”, tre premi Oscar e un Leone d’Oro guadagnati dal film della regista Chloé Zhao.
Come Bob, tanti italiani e italiane decidono, ogni anno, di imboccare una strada senza meta: senza casa, senza sicurezze, soli con se stessi e con il mondo. Non tutti “scelgono” questa vita. C’è chi perde il lavoro e si ritrova senza soldi per il supermercato o l’affitto di casa. “Abbiamo abolito la povertà” disse Luigi Di Maio, oggi ministro degli Esteri, allora capo politico del Movimento 5 Stelle, nel 2018 dal balcone di Palazzo Chigi, festeggiando l’approvazione del Documento di Economia e Finanza che conteneva il Reddito di Cittadinanza. A due anni dall’entrata in vigore della norma, è possibile dire che, purtroppo, la povertà non è stata abolita o contenuta. Lo vedono i ministri, i politici, le persone comuni, che passeggiano per le strade, perfino i più indifferenti. Tante storie diverse, tante vite complicate accomunate da un’unica conclusione: essere un clochard, lottare per la sopravvivenza.
Secondo i dati Istat, 16 giugno 2021, nel 2020 si considerano in “condizione di povertà assoluta” poco più di due milioni di famiglie italiane (7,7% del totale, rispetto al 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% dal 7,7% anno precedente). La povertà assoluta (famiglie e persone che non possono permettersi spese minime per soddisfare necessità primarie) raggiuge il livello più elevato dal 2005, prima della crisi finanziaria 2008 con le sue conseguenze sull’occupazione.
Per quanto riguarda la povertà relativa (in relazione agli standard di vita prevalenti all’interno di una data comunità) le famiglie sotto la soglia nel 2021 sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, dall’11,4% del 2019)
Il ventesimo report annuale Inps, luglio del 2021, mostra invece come il 2020, anno di diffusione della pandemia da Wuhan, Cina, in tutto il mondo, sia stato caratterizzato da una drastica caduta del fabbisogno di lavoro: ad una riduzione dell’occupazione del 2,8% si affianca un calo delle unità di lavoro del 7,1% e delle ore lavorate del 7,7%.
Una parte di loro, pur ridotta grazie al blocco dei licenziamenti del governo Conte II, ha perso il lavoro, molti hanno lavorato e guadagnato meno. Le assunzioni hanno subito una contrazione, intorno al 30%, arrivando a sfiorare il 40% per precari e apprendisti. Le trasformazioni di rapporto sono diminuite del 21% e le cessazioni son calate del 25%, con livelli più elevati in particolare per l’apprendistato (-31%) e per il tempo indeterminato (-29%), vale a dire per le tipologie contrattuali più interessate dal blocco dei licenziamenti. Nel complesso, i posti di lavoro presso le aziende private sono diminuiti di 37.000 unità rispetto allo stesso momento dell’anno precedente (2019).
La pandemia ha ridotto notevolmente anche il numero medio di settimane di effettivo lavoro: dal valore di 42,9 settimane nel 2019 si è scesi a 40,1 nel 2020. E ciò corrisponde ad una contrazione dell’input di lavoro pari al -6,5%, in linea con gli altri indicatori del mercato. In corrispondenza, si è registrata una diminuzione dei redditi da lavoro. La recessione ha colpito principalmente il settore della piccola impresa, e subito il freddo calcolo delle statistiche trova eco nelle voci vive delle persone. Myriam Allegra, piccola imprenditrice milanese e madre di famiglia, racconta che, allo scoppio della pandemia, febbraio 2020, non ha più percepito nemmeno un euro, e, per non far mancare nulla ai figli, ha messo mano ai risparmi di una vita. In breve Myriam si è ritrovata a chiedere aiuto alle associazioni di volontariato, da benestante a povera.
Secondo il report 2020 realizzato dalla Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia, dal 1° settembre 2020 al 31 marzo 2021, quasi una persona su quattro è “nuovo povero”, cioè mai rivolto in precedenza alla rete Caritas.Complessivamente, in oltre un anno di pandemia, si sono rivolti alle Caritas 453.731 nuovi poveri uomini e donne in egual numero.
Secondo l’Istat (dati 16 giugno 2021), nel 2020, l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta è più alta nel Mezzogiorno (9,4%, da 8,6%), ma la crescita più ampia si registra nel Nord, dove la povertà familiare sale al 7,6% dal 5,8% del 2019. Anche in termini di individui è il Nord a registrare il peggioramento più marcato, con l’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3%. Tale dinamica fa sì che, se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese erano distribuite quasi in egual misura tra Nord e Sud, nel 2020 arrivano al 47% al Nord contro il 38,6% del Mezzogiorno, con una differenza in valore assoluto di 167mila famiglie. L’incidenza di povertà assoluta più elevata è quella tra le famiglie con un maggior numero di componenti, e la situazione si fa più critica se i figli conviventi, soprattutto se minori, sono più di uno. È questo il caso della famiglia di Myriam Vallegra, piccola imprenditrice milanese e madre di 2 bambini di soli 4 e 7 anni.
“Ci siamo ritrovati, dall’oggi al domani, senza poter lavorare. Abbiamo avuto tutti i costi delle manifestazioni annullate e avendo l’attività in Lombardia, epicentro della pandemia, siamo stati i primi a chiudere. Noi imprenditori di base non abbiamo la cassa integrazione, siamo titolari d’impresa, e quindi non abbiamo percepito uno stipendio alternativo, non abbiamo avuto nessun tipo di entrata economica dal febbraio 2020. Per andare avanti, e dar da mangiare ai miei figli, son stata obbligata a chiedere due prestiti alla banca, poi ho partecipato al bando della Caritas e mi hanno dato 3000 euro, in due tranche. Ho sfruttato piccoli aiuti della Regione Lombardia, contributi per le famiglie, ma sono arrivata a dover chiedere aiuto ai miei genitori. Per fortuna ci sono stati loro al mio fianco perché della nostra categoria, lo Stato si è proprio dimenticato”. Myriam ha gli occhi commossi, stenta a parlare. Due lauree, alle spalle tanta esperienza, da anni si occupa di organizzazione di mostre ed eventi culturali.
“Ho sempre lavorato, fin da ragazza – ricorda Myriam – il mio disagio è stato non ritrovarmi più autonoma a quarant’anni, con l’umiliazione di chiedere a mia madre soldi in prestito. Quando ho saputo del lockdown, mi son sentita crollare il mondo addosso, mi sembrava impossibile ed ho subito pensato “E adesso?”. Poi ho trovato la forza di reagire, perché con dei bambini a carico devi trovarla comunque. Mio figlio maggiore, Nicolò, e la piccola Giulia, sono stati per me la carica di energia per non arrendermi, tirarmi su le maniche. Siamo stati aiutati da gruppi di volontariato, la San Vincenzo De Paoli ci ha anche mandato a casa, per Natale, un pacco regalo colmo di cibi. Ci sono state anche tensioni in famiglia, capita sotto stress, ma ho sempre cercato di proteggere i figli e di non fargli mai capire cosa stesse accadendo”.
Quelle di Myriam sono le parole di una madre che, nonostante le difficoltà, è riuscita a non far mancare nulla ai suoi due bambini, per lei unica ragione per non crollare nella disperazione: “In Italia l’imprenditore non è ben visto, è una realtà di fatto. Dovrebbe essere rispettato come persona che dà lavoro ad altri, e per questo motivo essere sostenuto dal governo. Invece viene etichettato nei talk show da evasore fiscale, anche se, come me, ha sempre versato i contributi ai dipendenti e pagato le tasse. Come in tutti settori, c’è chi evade e chi è onesto, ma alla fine a pagarne le conseguenze siamo noi, i più leali. Tutti i politici ci hanno abbandonato, pensando che magari noi avessimo qualche soldo da parte, purtroppo nel mio caso non era così”. Andare avanti è stata dura per Myriam Allegra. Il marito era già in disoccupazione, aveva perso il lavoro ancor prima del Covid, ci si è ritrovati con soli 700 euro al mese a dover sfamare una famiglia, con un mutuo di 500 euro da pagare.
“Per mesi non sono più riuscita a saldare niente, né fornitori, né espositori. Ho dovuto cancellare – lamenta Myriam – ogni tipo di evento, dopo aver anticipato grosse cifre per pubblicità ed organizzazione. I prestiti della banca mi sono serviti per pagare le fatture delle mostre annullate e solo da metà giugno 2021 ho ripreso un po’, grazie ai ristori messi del governo di Mario Draghi. Adesso sto respirando un filo, ma sono ancora in perdita. Spero che questa angoscia finisca presto!”.
L’incidenza di povertà assoluta in Italia [1] varia anche a seconda del titolo di godimento della casa in cui si vive e la situazione è dunque particolarmente critica per chi paga un affitto. C’è poi chi ha comprato casa e abita da solo, ma si è ritrovato a chiedere aiuto a gruppi di volontariato per mettere insieme pranzo e cena. È il caso di Maurizio X., milanese di 56 anni, che ha sempre lavorato nel mondo del turismo, uno dei settori maggiormente colpiti dalla crisi pandemica e preferisce non condividere il cognome. Grazie al suo stipendio, è riuscito a comprare casa e saldare le rate del mutuo con puntualità, ma negli ultimi mesi è andato sotto.
Prima di febbraio, Maurizio viveva una vita normale, non gli mancava nulla. Dopo il Covid, si è ritrovato a viver solo di cassa integrazione; soldi che gli sono bastati per non perdere il tetto, ma non per la spesa.
“Ce l’ho sempre fatta con lo stipendio – racconta Maurizio X. – ma dopo la pandemia non più. La prima cassa integrazione mi è arrivata dopo quattro mesi e non era neanche la metà del mio salario, ovvero 690 euro. Tutti i soldi risparmiati son terminati fretta, consumati dal mutuo. Mi sono ritrovato a zero. All’inizio, per la spesa mi ha aiutato un’amica, portandomi qualcosa da mangiare. Poi, grazie a una vicina di casa, ho chiesto aiuto alla Caritas, che mi ha fornito ogni giorno un pacco alimentare. Ho avuto anche accesso al Fondo San Giuseppe, gestito dalla diocesi di Milano per aiutare chi cade in serie difficoltà economiche. Non auguro a nessuno di vivere nella paura di non arrivare a fine mese, una tragedia”.
Maurizio lavorava in albergo, guadagnando 1500 euro con cui riusciva a star bene, senza preoccupazioni. Dall’oggi al domani non ha avuto nemmeno la libertà di comprarsi un piatto di pasta. “Lavoro da quando avevo quindici anni e adesso ne ho sessanta. Ho sempre sudato, mai chiesto niente a nessuno. Da un salario fisso, mi sono trovato con 23 euro rimasti in banca, una banconota e due monete. Perché una persona deve ridurre così? È frustrante. Andare dalla Caritas a prendere il pacco alimentare è stato per me umiliante, eppure ero grato. E come me, moltissimi italiani sono stati obbligati a questo passo amaro. C’è stato un aumento di richieste esponenziale. Lo Stato non ha aiutato e ti ritrovi costretto a cercare sostegno da un’altra parte”.
Riducendo l’input di lavoro, la pandemia ha inciso sull’ammontare e sulle dinamiche dei contributi sociali, che si sono ridotti. In aumento invece il numero di datori di lavoro. Quelli attivi nel 2020 sono risultati 2,781 milioni, in leggera crescita (+1,2%) rispetto al valore del 2019 (2,747 milioni). Si tratta di una crescita dovuta alla pandemia e all’aumento di datori di lavoro domestico – sostanzialmente le famiglie utilizzatrici di servizi di aiuto nella cura della casa o di assistenza a figli minori o ad anziani non autosufficienti – che nel 2020 hanno raggiunto praticamente il milione di unità: +78.000 rispetto all’anno precedente [2]. Per i datori di lavoro, intesi come aziende private, la pandemia ha avuto, invece, un effetto negativo, a causa del contenimento delle imprese stagionali. Infatti, per le aziende “stabili” (con almeno un dipendente ogni mese dell’anno) la riduzione è stata modesta, mentre per le aziende parzialmente presenti la contrazione è stata assai significativa.
Da Nord a Sud, la pena dei lavoratori in difficoltà non cambia. Rosario Y. è un catanese di 66 anni, prima della pandemia imbianchino, finché la pandemia non ha fermato anche l’edilizia ed è stato costretto a mettersi in fila alla Caritas locale. “Sto vivendo, con mia moglie, in una casa in stato di abbandono, che mi han fornito i volontari. Lei non lavora – racconta malinconico Rosario – e io me ne prendo cura. Per mangiare mi do da fare, mi rivolgo non solo alla Caritas e ad altre associazioni. Mi ritrovo povero, nonostante in vita mia non mi sia mai fermato. Sono stato a lavorare in Francia e in Germania, fino a quando, per motivi di salute, sono ritornato in Italia. Questa situazione mi ha sconvolto, prego che, con l’aiuto di Dio, si possa a vivere più sereni”.
Anche Lucrezia, 50 anni, è stata travolta dai problemi economici post-Covid a Catania: “Quando è scoppiata la pandemia il call center per il quale lavoravo ha smesso di pagarmi, perché non era più possibile andare lì in presenza. Son diventata povera in poche settimane. Non potevo fare la spesa, pagare le bollette. Non ho potuto lavorare in smart, non avevo soldi per comprare un computer portatile o una connessione internet. La mia sfortuna è stata che, lavorando in un call center, non sono stata più retribuita e non ho avuto cassa integrazione. Solo mia sorella, quando poteva, mi portava qualcosa da mangiare. Con qualche prestito da parte di amici sono riuscita a sopravvivere nei mesi di lockdown. Non auguro a nessuno di vivere una nel disagio”.
Il Reddito di Cittadinanza è stato uno degli strumenti utilizzati dal governo Conte I per contrastare la povertà, ancora prima della crisi pandemica: da una generazione intera, infatti, il nostro paese aveva smesso di crescere, colpendo soprattutto le nuove generazioni. Tra coloro che hanno usufruito della misura di sostegno ai ceti meno abbienti, c’è Marcello Z:, sessantadue anni, catanese, licenziato nel 2016 dalla banca in cui ha lavorato dal 2000. Prima di ottenere il reddito ha vissuto per strada, e nei vari dormitori Caritas. “Grazie ai 780 euro messi a disposizione dallo Stato, son riuscito da qualche mese a prendere una stanza in affitto. Sono divorziato, i miei figli vivono con la madre e non hanno problemi economici. Io non ho mai chiesto aiuto, per non pesare sulle spalle di nessuno. Non sono uno che parla tanto, ma posso dire che resistere e non mollare mai alla fine porta i suoi frutti”. Il mantra di Marcello, analogo a quello degli eroi di “Nomadland”, risuona spesso in chi si ritrova a dormire, solo, per strada.
Gianluca Torres, siciliano che per anni ha dormito su un pezzo di cartone da imballaggio, nei pressi della stazione Termini di Roma, racconta: “I miei genitori sono morti quando era piccolo, sono cresciuto da solo. Ho preso giusto la quinta elementare, ma conosco cinque lingue, perché ho girato diversi paesi e ho imparato da me. Mio padre era dipendente dell’Inps, faceva l’idraulico come secondo lavoro. A casa non c’era mai ed io mi sentivo sempre solo. Il mio sogno era diventare un calciatore professionista, invece mi ritrovo a esser chiamato “barbone””.
Dopo aver girato l’Europa, Gianluca lavorato a Malta, edili in bilico sui ponteggi, per un quarto di secolo. Poi comincia a far uso di cocaina e viene licenziato: “Ho iniziato a drogarmi per star meglio con me stesso. Quando inizi, ne vuoi sempre di più, fino a quando perdi la testa e bruci la tua vita, come me. Ne sono uscito a forza di volontà, la società mi aveva escluso, non riuscivo a trovare un lavoro, nessuno aveva fiducia in me. Da disoccupato, a Malta, la Caritas mi ha accolto con amore, offrendomi da mangiare e un posto per dormire. Lì non è come in Italia, nessuno dorme per strada, c’è sempre qualcuno che ti aiuta. Poi però sono andato via, volevo riprendere in mano la mia vita, avevo bisogno di un luogo dove non essere identificato come una persona malata di mente”.
Gianluca arriva così a Roma, senza un euro in tasca, con i suoi borsoni di povere cose e dorme all’addiaccio: “Giorno e notte sotto i portici della stazione, in via Marsala a Roma, via vai di turisti e pendolari al mattino, poi il deserto ed è stato terribile. D’inverno il freddo ti entra nelle ossa, ti senti morire, fin quando non impari a resistere. Ricordo due ragazzi, clochard come me, picchiarsi a bottigliate, minacciarsi con i coltelli. Non riuscivo a capire come sia possibile che persone così in difficoltà non riescano ad aiutarsi e rispettarsi, piuttosto che mettersi nei guai. In strada ho visto come i poveri rubino ad altri poveri, vergognoso. Io ho amato ogni donna e uomo incontrati in questo difficile cammino. Ho sempre aiutato quando ho potuto, mai voltato le spalle. Per sopravvivere, bisogna avere regole, rispettare tutti, essere sempre educati.”
Dopo anni ormai senzatetto, Gianluca si riscatta con il reddito di cittadinanza e una stanza sua, in affitto: “Vivo con poco ma ho un letto tutto mio e mi basta! Per questo consiglio di non esser troppo ipocriti, egoisti e presuntuosi. Ho conosciuto ogni genere di persona dormendo sotto le stelle: laureati, padri e madri di famiglie, gente che sembrava aver tutto, ma che, dall’oggi al domani, si è ritrovata nuda. Non è possibile che nessuno ci rivolga la parola, tanti ci ignorano, ci schifano. L’esistenza è fatta di ostacoli, c’è chi riesce a superarli da solo, che prende cattive strade ed ha bisogno di aiuto, ma non merita indifferenza. Non è giusto essere invisibili. Nessuno deve aver la sicurezza di star meglio degli altri, perché non è così”.
Sono tanti i ragazzi che, vittime della droga, si ritrovano clochard senza rendersene nemmeno conto. Laura V., nata e cresciuta a Siracusa, senzatetto, dorme nei pressi della stazione Termini: “Quando avevo dodici anni, con i miei genitori, ci siamo trasferiti a Roma e questa è stata la mia grande disgrazia. Ho conosciuto un ragazzo, ci siamo innamorati e ho cominciato a prendere strade sbagliate, a seguirlo anche nelle scelte peggiori. Siamo diventati tossicodipendenti e anche quando ci siamo lasciati, io ho continuato a far abuso di droga e sono andata via di casa, senza soldi, senza niente, sola con la mia dipendenza. Sono stata aiutata da tante associazioni, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, che mi hanno procurato almeno il cibo. Ma ho continuato a dormire per strada, per scelta. Mia madre mi disse “È questa la vita che vuoi fare? Arrangiati, non ti do un euro” ed eccomi qui, stanca di quella merda in polvere che mi ha rovinata e dalla quale mi vorrei liberare”.
Quella di Laura è stata una scelta, così come quella di Fern, protagonista di “Nomadland”. Fern ha 60 anni, a seguito della Grande Recessione post 2008, ha perso l’impiego in azienda ed ormai vedova. Rimasta da sola, ha deciso di vendere tutto ciò che aveva, per comprare un furgone e partire on the road, alla ricerca di un lavoro. Vive come una nomade, ne incontra altri con i quali condivide straordinari momenti e dai quali raccoglie consigli su come sopravvivere. Questa è la vita che ha scelto Fern e nonostante la sorella le chieda di ritornare a casa, lei è determinata a proseguire a bordo del suo furgone e non c’è nessuno che può fermarla. Ma Fern non ha la catena delle droghe, come Laura: “Non vado d’accordo con i miei genitori. Soprattutto con mia madre perché siamo troppo diverse. Ho commesso tanti sbagli nella mia vita e alla fine, pure i genitori ti sopportano fino a un certo punto. Mamma mi chiama però quasi ogni giorno per sapere come sto. A me va bene così, voglio vivere la mia vita in modo indipendente, ricominciare con le mie forze. Dormendo per strada mi hanno rubato ormai tutto, anche i documenti. Pian piano mi sono sistemata, ora mi è arrivato per la prima volta il reddito di cittadinanza. Adesso seguo un percorso a Villa Maraini, un centro specializzato, sono decisa a disintossicarmi”.
Laura ne ha vissute tante, perfino in Spagna. Anche lì, racconta, ci sono associazioni che aiutano sia chi è dipendente dalla droga sia chi, per motivi diversi, si ritrova senza un tetto e senza soldi per mangiare. Da lì, ha deciso poi di ritornare in Italia, dapprima Viterbo, poi a Roma: “Vivo per strada ormai dal 2016. Nessun clochard potrà mai dire che si muore di fame da noi o in Spagna, non è così. I momenti peggiori li vivi la notte, tra il freddo che ti logora e gli altri senzatetto che voglio approfittare di te. Chi ti ruba le poche cose che hai, chi abusa delle donne, io sono stata violentata, più di una volta. A volte mi accorgo che le persone, anche le ragazze, mi guardano superbe, schifate, e mi viene da piangere perché non sanno cosa ho vissuto. Io ho sbagliato, lo so, ma c’è chi si ritrova povero per sfortuna. Sfiderei quella gente che ci disprezza a trascorrere solo mezza giornata, mezza notte, dormendo per terra, per capire cosa si prova. Dopo aver vissuto per anni in una casa, con i tuoi comfort, vivere al gelo è traumatico”.
Diverso il destino di Gianni L., nato in Calabria ma dal 2019 senza fissa dimora a Roma: “Ho sempre lavorato, ritrovarmi povero mi angoscia. Nel 1986 mi son trasferito in Germania, con l’appoggio di un mio cugino, mi son ritrovato a fare il cassiere, il lavapiatti, l’aiutante cuoco e infine il pizzaiolo. In Germania ho conosciuto mia moglie e abbiamo avuto due figli. La nostra è sempre stata una vita felice, fino a quando, per aver litigato con il titolare del ristorante davanti alla polizia, ho perso il lavoro e sono stato costretto a lasciare il paese. Mi han cacciato e a Roma non sapevo dove dormire. Non vedo la mia famiglia da allora e mi manca più di ogni altra cosa. Qui sono solo e non ce la faccio più. Ho 50 anni e non ho niente. Mi ritrovo a lottare con la depressione, con la stanchezza, vivendo nella speranza che tutto ciò possa finire, invidiando persino chi si ferma a prendere un caffè al bar”.
Gianni si è ritrovato invece alla stazione Termini: “Mi han rubato i documenti e sono diventato il Signor Nessuno. Mi aiutano i ragazzi delle associazioni di volontariato. In Germania ti girano almeno qualcosa, 15 euro in tasca non mancano mai. Dormendo per strada ti senti uno schifo, parli da solo, cammini davanti e indietro come uno sbandato, nessuno ti capisce. Prima di viverlo sulla pelle, non capivo nemmeno io. Adesso non solo comprendo ma so bene che c’è chi sta peggio di me. La gente intorno ci guarda male e non è bello. Ci dovrebbe essere più aiuto reciproco”.
Gianni si commuove parlando dei suoi figli: “Io non vedo l’ora di rivederli, ma dopo anni non so se sia lo stesso per loro. Ci sono giorni nei quali non mangio e mi aiuta a sopravvivere l’acqua fresca delle fontane. Ho sopportato la fame, fino al punto di impazzire e pensare persino di rubare nei supermercati. Dopo tre giorni senza mangiare, tremi, non ragioni più. Pensi a cose che non avresti mai immaginato di fare e alla fine, pur di non commettere azioni illecite sopporti fino a sentirti male e finire in ospedale. Non ho più un euro, mangio solo quando le associazioni portano il cibo. Sono stanco di sentirmi dire “Barbone!”. Se domani vedessi mia moglie ed i miei figli, gli racconterei che la vita è brutta e chi ha un lavoro ed una famiglia se li deve tener stretti. La speranza e la voglia di rivedere i bambini è tutto ciò che mi dà forza per andare avanti”.
A poco meno di due anni dall’inizio della pandemia Covid-19, la Caritas Italiana ha realizzato una nuova rilevazione sui bisogni, le vulnerabilità, ma anche le risposte e le speranze del momento, alla quale hanno partecipato190 Caritas diocesane, pari all’87,1% del totale. Periodo esaminato, dal settembre 2020 al marzo 2021, sette mesi nel corso dei quali, accanto al perdurare delle situazioni di contagio, sono emersi segnali di ripresa e l’attivazione di nuove forme di sostegno a favore di persone, famiglie e imprese.
Dopo le prime settimane dal lockdown, gli operatori e i volontari Caritas si sono resi conto che stavano assistendo a una metamorfosi della povertà e che “poveri insospettabili” stavano facendo, per la prima volta, il loro ingresso nella miseria. Si tratta di persone che nella loro vita non avrebbero mai pensato di rivolgersi ad un centro d’ascolto e che anzi, molto spesso, non ne conoscevano l’esistenza. Alle persone che hanno visto ridursi lo stipendio o hanno usufruito della cassa integrazione, si sono aggiunti coloro che facevano parte del mercato del lavoro irregolare, da un giorno all’altro sono inchiodati nella zona d’ombra dell’economia italiana, a nord a sud del nostro paese.
Le Caritas diocesane italiane, si legge nel report, hanno sottolineato come tutti coloro (soprattutto donne e giovani) che si sono ritrovate a chiedere aiuto alle associazioni di volontariato, lo abbiamo fatto per motivi simili:
– Difficoltà legate al precariato lavorativo nell’occupazione femminile (93,2% delle Caritas);
– Difficoltà legate al precariato lavorativo nell’occupazione giovanile (92,1%);
– Difficoltà abitative (84,2%);
– Povertà educativa (abbandono, ritardo scolastico, difficoltà a seguire le lezioni, ecc.) (80,5%);
– Disagio psico-sociale dei giovani (80,5%)
Durante la pandemia, operatori, volontari e disagiati hanno condiviso disagi, difficoltà, paure. “Tutti sulla stessa barca” ha affermato Papa Francesco, ma con il rischio, talvolta, di non avere la giusta distanza nella relazione di aiuto o la preoccupazione di non poter aiutare tutti e non essere abbastanza efficaci nel servizio prestato. Diverse Caritas, emerge dal report, si sono sentite impreparate nel fronteggiare l’emergenza sociale, incapaci di fornire servizi efficaci. Al contempo, queste sensazioni hanno messo in luce la possibilità di attivare un cambiamento, di mettere in moto creatività e innovazione per arrivare alle persone con i soli mezzi disponibili.
La costituzione di reti informali e spontanee, con soggetti nuovi come volontari, parrocchie, enti del terzo settore, istituzioni o aziende che spesso si sono avvicinati per la prima volta al contesto Caritas, ha determinato un movimento di solidarietà oltre che ad un possibile ampliamento dei servizi a disposizione dei beneficiari.
I dati riportati dalla raccolta Caritas fotografano una situazione nella quale i “nuovi poveri” rappresentano quasi la metà degli assistiti (il 45% a fronte del 31% nell’Italia pre-Covid). Si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di “normalizzazione” della povertà, come accaduto dopo il 2008. A fare la differenza tuttavia, rispetto a dodici anni fa, è il punto di partenza: nell’Italia pre-pandemia (2019) il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007, periodo della Grande Recessione. Dall’esperienza della pandemia, emerge come indispensabile l’esigenza di ripensare e rivedere le Caritas, a partire dai principi fondanti e affinché si possa contribuire alla costruzione di una società più giusta e più attenta alla sostenibilità, ai bisogni dell’altro e alla cultura dell’incontro.
I dati riportati dalla raccolta Caritas fotografano una situazione nella quale i “nuovi poveri” rappresentano quasi la metà degli assistiti (il 45% a fronte del 31% nell’Italia pre-Covid). Si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di “normalizzazione” della povertà, come accaduto dopo il 2008. A fare la differenza tuttavia, rispetto a dodici anni fa, è il punto di partenza: nell’Italia pre-pandemia (2019) il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007, periodo della Grande Recessione. Dall’esperienza della pandemia, emerge come indispensabile l’esigenza di ripensare e rivedere le Caritas, a partire dai principi fondanti e affinché si possa contribuire alla costruzione di una società più giusta e più attenta alla sostenibilità, ai bisogni dell’altro e alla cultura dell’incontro.
“La pandemia ha certamente inasprito le condizioni complicate di tante categorie fragili che già nella fase pre-covid si trovavano nel nostro circuito di supporto. Ha certamente reso più difficile la vita di tanti soggetti che prima non necessitavano di aiuto, tra i quali famiglie e in particolare quelle soprannumerarie, liberi professionisti e dipendenti soprattutto della ristorazione. I dati a nostra disposizione delineano al meglio l’attuale situazione: all’Help Center della Stazione Centrale della Caritas Diocesana, facendo un confronto tra il primo bimestre del 2021 e quello dell’anno scorso, si è registrata una crescita del 600% delle richieste relative a tutti gli aspetti della quotidianità (beni di prima necessità, alimenti per bambini, prodotti per la colazione, titoli di viaggio, disbrigo pratiche, etc…). Fondamentali sono stati anche i servizi per la cura dell’igiene della persona, attivati lo scorso novembre. Anche per quanto riguarda i dati relativi ai pasti, la crescita è stata evidente, con circa 700 interventi alimentari al giorno, circa un paio di centinaia in più rispetto al solito”.
A fornirci i dati Salvo Pappalardo, responsabile delle attività in Caritas Diocesana di Catania: “Un primo aspetto rilevante riguarda il peso degli italiani, che ormai costituiscono la metà di coloro che chiedono aiuto, mentre lo scorso anno erano appena un terzo del totale. La loro presenza è più che decuplicata in valore assoluto. Andando nel dettaglio, nel periodo gennaio/febbraio dell’anno precedente, gli italiani rappresentavano appena il 29% del totale. Nel 2021 la quota è salita al 47,5%. In generale, a presentarsi alla struttura dell’organismo diocesano sono principalmente famiglie, italiane e straniere, con madri e/o padri che hanno perso il lavoro e hanno bisogno di una mano per tutti gli aspetti della quotidianità (alimenti per bambini, materiale scolastico, latte, etc…). Tra i richiedenti, anche i senza dimora alla ricerca di un alloggio ed extracomunitari che chiedono aiuto in titoli di viaggio, farmaci e disbrigo pratiche per il rinnovo dei documenti”.
A confermarci l’aggravarsi della situazione è il terzo report “Un cuore che vede dove c’è bisogno di amore” dell’Osservatorio Diocesano delle Povertà e delle Risorse, pubblicato dalla Caritas Diocesana di Catania il 16 novembre 2021, secondo il quale, nel 2020, i volontari che operano nella città siciliana hanno effettuato oltre 250.000 interventi (esattamente 253.288) e dunque circa 16.000 in più rispetto all’anno precedente.
La percentuale di italiani che ne hanno usufruito è del 60% e tra essi anche famiglie e lavoratori del sommerso, oltre che percettori del reddito di cittadinanza. Questi dati testimoniano una crescita complessiva del 7% della povertà rispetto al 2019. Vediamo due grafici del report che mostrano le percentuali dei nuovi utenti, divisi per provenienza, e dei nuovi interventi per servizi diurni effettuati nel 2020, che sottolineano come siano le più elevate le percentuali degli italiani rispetto a quelle di tutti gli altri.
Le Caritas diocesane, fin dai primi giorni dell’emergenza sanitaria, hanno messo in atto delle risposte mai sperimentate in precedenza: servizi di ascolto e di accompagnamento telefonici, l’ascolto organizzato all’aperto, la consegna di pasti a domicilio, la distribuzione di dispositivi di protezione individuale e igienizzanti, alloggi per periodi di quarantena e isolamento. Opere ed iniziative realizzate anche grazie alla disponibilità di oltre 62mila volontari.
“La Caritas è attiva su diversi fronti – conclude Pappalardo – per sostenere i soggetti più fragili, tra servizi a bassa soglia e supporto più strutturato che permetta ai nostri assistiti di superare la fase di indigenza e di rendersi autonomi. Effettuiamo quotidianamente (festivi inclusi) la distribuzione dei pasti e di altri beni di prima necessità ed è anche operativo, cinque giorni su sette, il servizio per bagni e docce. A disposizione dei nostri assistiti abbiamo anche la consulenza legale, la rete di assistenza sanitaria, strutture per donne vittime di violenza con minori a carico, la scuola di prima alfabetizzazione, il microcredito e lo sportello Caritas-Acli per promuovere l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”.
I dati in crescita sulle richieste di aiuto post-pandemia sono confermati anche dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma e in particolare dal suo coordinatore Tonino Sammarone: “Ho 61 anni e da 40 faccio volontariato. Da marzo a fine ottobre 2020 abbiamo distribuito in Italia 150.000 pacchi alimentari, cioè due volte e mezzo in più quelli distribuiti l’anno precedente, con una media di 19.000 pacchi al mese. Prima ne davamo 7500. I centri di distribuzione a Roma sono 28, in totale in Italia 50. Possiamo dunque confermare che dallo scoppio dell’emergenza il numero dei poveri è nettamente aumentato. Sulle persone senza fissa dimora non posso dire lo stesso, nonostante a Roma i posti disponibili nei nostri centri siano diminuiti a causa del distanziamento e la cosa che ci preoccupa di più è che non ne siano stati creati di nuovi, né dal comune né dalle istituzioni”.
Tonino Sommarone spiega come la Comunità di Sant’Egidio riesca a dare ospitalità a circa 250 persone e offrire la possibilità a più di 1000 ogni mese di mangiare nelle mense e avere un pasto caldo: “A Roma c’è una grossa carenza di servizi di accoglienza. Dal confronto con le altre città, per esempio Milano che è molto più piccola e ha meno abitanti, emerge che il capoluogo lombardo ha messo a disposizione 790 posti in più oltre quelli che il comune gestisce; a Roma invece soltanto 300. Cifre preoccupanti su un comune come quello della Capitale che beneficia invece dell’aiuto e del sostegno delle strutture di associazioni quali Caritas o Sant’Egidio che danno ben 1700 posti per dormire a chi non ha dimora. Le istituzioni dovrebbero essere più presenti. Noi ci siamo impegnati e continuiamo a farlo allo scopo di instaurare un dialogo attivo con loro”.
Sono tantissimi i senzatetto che Sommarone ha incontrato in questi anni di volontariato e due in particolare gli son rimasti impressi. Il primo è S.E., nato a Roma da madre nubile, “Ci siamo incontrati alla mensa di Via Dandolo nel dicembre del 1989. Mi disse “Se passo da solo anche questo Natale non sopravvivo”. Così decisi di invitarlo a cena e da quel giorno nacque una grande amicizia che durò fino all’ultimo istante della sua vita, lo scorso 30 maggio”.
S.E. era divorziato, aveva lasciato la moglie e i figli e viveva in un’auto a Monteverde. La Comunità presto divenne la sua nuova famiglia, la mensa la sua nuova casa e finalmente per molti anni non si sentì più solo. Nella ricerca di un lavoro e in vari momenti di difficoltà per via di un intervento al cuore, Sant’Egidio gli è sempre stato vicino.
“Dopo l’operazione al cuore non riuscì più dormire in macchina – racconta Tonino Sommarone – e noi volontari trovammo per lui un’occupazione come custode in un parco giochi. Quando questo venne chiuso, gli regalammo una roulotte. S.E cominciò a fare assistenza serale e notturna a diversi anziani nella nostra comunità, incontrò un’altra donna, si risposò e visse con lei per dieci anni. Poi la lasciò, scappò di casa perché sentiva la mancanza dei figli avuti con la prima moglie. Venne ricoverato in una struttura psichiatrica per depressione e fu lì che morì. Sarà per sempre parte della nostra famiglia, così come M., 52 anni, conosciuto per strada in Via Nemorense”.
M. finì per strada quando una donna lo cacciò di casa a Ponte Mammolo:
“Tutte le volte era contentissimo di vederci – dice Sommarone – e ci cantava sempre una nenia di sua invenzione. Prima di arrivare in via Nemorense aveva già vagato per alcune stazioni ed era riuscito a comprarsi una roulotte. Una mattina mi chiamarono per avvertirmi che un barbone aveva perso la vita in un incendio, in una roulotte. Capimmo subito chi fosse. Non sapremo mai se fu un suicidio o un incidente e non ci dimenticheremo di lui”.
In chiusura, prendendo in considerazione i dati forniti dall’ultimo rapporto della Caritas e da Salvo Pappalardo e quelli forniti dalla comunità di Sant’Egidio, l’orizzonte di povertà per il prossimo futuro sembra segnato da previsioni pessimistiche. Al livello europeo, gli ultimi dati istituzionali disponibili sono di Eurostat, del dicembre 2019. Nell’Europa pre-Covid si era confermato per il sesto anno consecutivo un calo delle persone a rischio povertà o esclusione sociale, in totale 110 milioni individui (il 21,9% della popolazione totale), ossia quasi 2,7 milioni in meno rispetto al 2019.
Quali contorni e caratteristiche assumerà il fenomeno della povertà nei prossimi anni? È difficile fare previsioni. I dati registrati nell’ultimo report Caritas tratteggiano dei segnali di mutamento, evidenziando un incremento del 12,7% del numero di persone seguite nel 2020 rispetto allo scorso anno e un numero di assistiti che negli ultimi 5 anni è cresciuto sempre di più. Cosa cambierà quando sarà stata completata al 100% la campagna vaccinale? Anche con la terza dose? La speranza è che i dati sulla povertà possano tornare a registrate dei cali e non più dei picchi. Ma accanto ai numeri, le statistiche, in questo mio reportage sulle nuove povertà vorrei ricordare le voci, i sentimenti, le storie degli uomini e delle donne che ho incontrato, esseri umani come noi, voi e me, che nella frenesia della vita quotidiana scavalchiamo sui marciapiedi e ignoriamo, “barboni” cui magari allungare una moneta di corsa ma il cui destino e le cui pene ci riguardano invece, da vicino e per sempre.