«Quando una donna muore fa notizia, quando esce da un percorso di violenza no. Il nostro lavoro prende le mosse dalla constatazione che di violenza di genere si parla tanto, ma lo si fa attraverso una visione vittimistica delle donne. Noi abbiamo cercato di farlo in modo diverso, mostrando il percorso di uscita dalla violenza perché una via d’uscita c’è. Non è semplice, ma esiste». La fotografa Simona Ghizzoni, con queste parole, racconta la mostra fotografica intitolata “SEGNI”, in corso a Roma, a Palazzo Braschi, dall’8 dicembre 2021 al 22 marzo 2022.
Ghizzoni e la collega Ilaria Magliocchetti Lombi sono le autrici dei quarantadue scatti in cui si articola l’esposizione, che racconta il percorso di Anna, Lucilla, Sara e Valentina all’interno di un Centro Antiviolenza. Sono loro che, in prima persona, si raccontano con parole riportate sotto gli scatti fotografici. Questi interpretano le loro esperienze attraverso una narrazione che prende in considerazione i luoghi in cui la violenza esplode e i corpi su cui si abbatte.
«Ci siamo concentrate soprattutto sugli abusi che avvengono in casa. Il nostro lavoro vuole mostrare i segni, quelle cose che accadono prima di una violenza conclamata, prima della tragedia. Sono quei segnali che dovrebbero metterci in allerta. In principio si tendono a minimizzare gesti come lui che ti controlla in modo ossessivo il telefono, che ti convince a non parlare più con quell’amica, che ti chiama sessanta volte per sapere dove sei. Molte, all’inizio, non danno peso a questi “segni”».
Cominciano così le violenze, da quelle che vengono scambiate per piccole attenzioni, prova del fatto che lui ci tiene. Non importa l’età o il contesto familiare, «piano piano c’è una costruzione della violenza insieme a una decostruzione della fiducia nella propria capacità di riconoscere quello che accade – osserva Ghizzoni – all’inizio nessuna pensa che stia davvero capitando a lei».
L’isolamento è il primo passo: alla donna vengono tolti tutti i legami affinché la violenza si consumi, nel silenzio delle mura domestiche. Proprio il fatto che gli abusi si concentrino nella casa ha il potere di nascondere alle donne stesse il fatto che si stia davvero verificando una violenza: «La dimensione domestica dovrebbe essere un luogo di sicurezza, pace, e diventa, invece, il teatro degli abusi. È difficile, in una situazione di questo tipo, interpretare i segni».
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È quello che è accaduto ad Anna che, appena ventenne, ha attraversato un percorso di quattro mesi in un Centro Antiviolenza. A diciannove anni aveva conosciuto il suo partner: «Mi ha vista per strada e si è procurato subito il mio numero di telefono. Era un corteggiatore insistente, capace di inviarmi fino a 60 messaggi al giorno. All’inizio, però, ne ero lusingata».
Questa è una delle esperienze che Simona Ghizzoni ha tentato di rivivere sulla propria pelle attraverso l’autoritratto: «Nel mostrare quei momenti non potevo coinvolgere le donne in prima persona, allora ho deciso di ri-raccontare le loro storie su di me. È un processo difficile, è necessario immergersi completamente in quel passato doloroso e cercare di tradurre visivamente sia le sensazioni che gli avvenimenti. È una partecipazione attiva che mi ha segnato. Il mettersi nei panni dell’altro credo che sia la questione fondamentale di un lavoro di questo genere. Quello che volevamo, io con l’autoritratto e Ilaria immortalando i luoghi, è far sì che lo spettatore entrasse nelle storie di queste donne perché quello che è accaduto a loro può succedere a chiunque».
Nel combattere la violenza di genere, un ruolo fondamentale è svolto dai Centri Antiviolenza e dalle Case rifugio che offrono assistenza alle donne che hanno subito abusi, oltre che ai loro figli. Secondo l’Istat, sono 15.387 le donne che, nel solo 2020, hanno iniziato un percorso in queste strutture. Tra i vari compiti che assolvono, queste ultime si occupano anche della prevenzione della violenza, che rientra tra le “quattro P” su cui si basa la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere e la violenza domestica: prevenire, proteggere, perseguire, politiche integrate.
In attuazione del trattato, le istituzioni italiane hanno posto le basi dell’attuale sistema antiviolenza attraverso il DL 93/2013, che ha stabilito lo stanziamento annuale, da parte dello Stato, di almeno 10 milioni di euro ai Centri Antiviolenza e alle Case Rifugio. Da quel momento, il 75 per cento delle risorse investite è stato destinato alla protezione delle vittime, mentre solo il 14 per cento è andato alle misure di prevenzione, quelle che tentano di affrontare la dimensione culturale del problema. Di tali risorse il 10 per cento è stato utilizzato per la realizzazione di programmi educativi e di sensibilizzazione (prevenzione primaria), il 2 per cento per attività di formazione rivolta alle forze di polizia che entrano in contatto con le donne (prevenzione secondaria) e un ulteriore 2 per cento è stato impiegato nella realizzazione di programmi per uomini autori di violenza (prevenzione terziaria). Tutto questo tradisce un approccio emergenziale alla questione, senza la previsione di piani strutturali che contrastino il fenomeno.
A questo si accompagna la lentezza con cui i fondi antiviolenza vengono erogati da parte delle amministrazioni centrali e territoriali. In base al rapporto di ActionAid dell’8 novembre 2021, le risorse stanziate per l’annualità 2017 hanno impiegato in media più di quindici mesi a giungere nelle casse di Centri Antiviolenza e Case Rifugio. Una eccezione rispetto a questa tendenza è stata registrata nel 2020, quando i fondi hanno impiegato appena quattro mesi per essere trasferiti alle Regioni che si occupano dell’erogazione. Questo è accaduto grazie alla procedura accelerata messa in campo dal Governo davanti all’allarme lanciato dai Centri Antiviolenza, in affanno a causa della crisi pandemica. Scemata la pressione mediatica e politica, i tempi hanno tornato ad allungarsi. Il Dipartimento per le Pari opportunità ha impiegato circa sette mesi per trasferire alle Regioni le risorse stanziate nel 2020 e, a ottobre 2021, risultano erogati solo il 2 per cento dei fondi ai Centri Antiviolenza.
Eppure, la prevenzione degli episodi violenti, l’educazione a interpretare correttamente i segni, è fondamentale. «Se non si rieduca la società intera a percepire come inaccettabili certi comportamenti, prima che diventino violenza conclamata, non si arriverà mai in tempo per scongiurare la tragedia», dice Simona Ghizzoni.
Secondo la fotografa, ci troviamo in una seconda fase del processo di presa di coscienza del problema da parte della società. «In un primo momento, le donne sono state le protagoniste di un moto di denuncia come, per esempio, il MeToo – movimento nato nel 2017 per incoraggiare le donne che avevano subito violenze a condividere la propria esperienza on-line – che ha reso evidente all’opinione pubblica la reale portata del problema. Agli uomini che spesso dicono di non sentirsi inclusi nelle battaglie dei movimenti femministi dico che questa fase non poteva essere inclusiva. C’è stata una rottura quando le donne si sono sentite libere di parlare, insieme in una grande esperienza collettiva. La denuncia è arrivata accompagnata dalla rabbia, non poteva essere un momento di dialogo. Adesso, invece, stiamo entrando in una nuova fase in cui si devono rendere partecipi gli uomini e la società intera, in un processo educativo che non può che partire dalle scuole».
La mostra SEGNI nasce come un progetto didattico. Dell’esperienza a contatto con le ragazze e i ragazzi, Ghizzoni ricorda: «C’era una grande voglia di parlare e mettersi in discussione, di raccontare le proprie esperienze. Dare gli strumenti per comprendere la violenza può davvero cambiare le cose. È un argomento rimasto un tabù per secoli. Oggi se ne comincia a parlare, i giovani sono molto interessati a farlo, per questo sono speranzosa. Parlare di violenza di genere è fondamentale: se non ne parli, è come se non fosse mai esistita».