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Esclusiva

Febbraio 18 2022
«Lavorare ad un film è un atto di incoscienza»

Giuseppe Bonito e Alfredo Betrò, regista e direttore della fotografia, raccontano L’Arminuta, dal libro Premio Campiello 2017

Ritornata. Questo significa arminuta in dialetto abruzzese. Una bambina di tredici anni vissuta negli agi borghesi viene restituita alla sua povera famiglia di origine, senza sapere il perché. Premio campiello nel 2017, “L’Arminuta” è un romanzo di Donatella di Pietrantonio che ha affascinato il regista Giuseppe Bonito fin dal primo momento. «Ho letto il libro una settimana dopo che era uscito, quando ancora non era conosciuto da nessuno. Subito ho sentito una grande attrazione per le figure femminili, e non sapevo perché. Così questo film per me è stata una ricerca dentro me stesso». La sceneggiatura, scritta da Bonito a sei mani con la stessa Donatella Di Pietrantonio e Monica Zapelli, è nata quando il romanzo era all’apice del successo. «Questo fatto ci faceva paura, ma non è mai stata nostra preoccupazione essere fedeli al libro, anzi. Non abbiamo mai lavorato sfogliando le pagine del romanzo», dice il regista, confessando di aver letto il libro solamente una volta, la prima. «Volevo raccontare ciò che a me del racconto ha interessato di più. La lavorazione di un film deve essere anche un atto di incoscienza dal punto di vista della fedeltà letteraria».

Le protagoniste

Ambientato a metà degli anni Settanta, “L’Arminuta” è un racconto sull’abbandono, la colpa, l’infanzia o, anche, la scoperta della complessità del mondo adulto. Un universo di madri e di donne le cui scelte sono impenetrabili agli occhi delle due piccole protagoniste, la Ritornata (mai chiamata con il suo nome) e Adriana, la sorellina che lei ritrova nella sua famiglia di origine. La ricerca delle giovani attrici adatte a due ruoli così taglienti e complessi ha impiegato due mesi e si è estesa per tutto il territorio abruzzese. «Quello che mi ha colpito di Carlotta De Leonardis (Adriana) è che, mentre tutte le bambine si rifiutavano di parlare in pubblico in dialetto abruzzese, lei no». Ma anche Sofia Fiore era Arminuta dentro. «Come la protagonista, che ama scrivere, quando ho chiesto a Sofia di descrivermi cosa vedeva dalla finestra è stata l’unica a raccontarmi cosa percepiva, e non cosa vedeva». Il fatto che la sua chioma rossa non assomigliasse a nessuno della famiglia è passato subito in secondo piano.

L’Arminuta tra luci ed ombre

La piccola arminuta passa dalle sue abitudini borghesi e cittadine ad un contesto di povertà, dall’italiano al dialetto, dall’avere una famiglia a ritrovarsene priva. Per aiutare l’evoluzione del dramma, il direttore della fotografia Alberto Betrò racconta di aver voluto lavorare di luce e di ombra e di aver creato dei contrasti, anche netti, tra gli ambienti borghesi e quelli proletari. «Se oggi si punta più all’effetto, io sono erede di una tradizione diversa, che rappresenta più per metafore visive. All’inizio del film, per quasi diciassette minuti nessuno parla». E così diventava fondamentale il modo in cui i protagonisti erano filmati interagire con lo spazio e tra di loro. «Sia io che Giuseppe volevamo evitare una tinta cliché unica che ricordasse gli anni Settanta. Cercavamo una semplicità, ma una semplicità drammatica».

Dinamiche familiari e conflitti sono al centro di questo dramma. «Nella sceneggiatura non abbiamo parlato per temi, ma dei personaggi, dei loro contrasti e delle loro conflittualità». Per Bonito lavorare a un film è anche un viaggio dentro sé stessi. «Perché mi ha colpito una storia così femminile? La risposta ancora non ce l’ho. Penso che sia una cosa bella, che qualcosa di così marcatamente femminile risuoni in te. Il perché è qualcosa che ho voluto scoprire man mano durante il film. Alcune cose le ho messo a fuoco, altre ancora no. È una scoperta rischiosa, ma per me è l’unico modo che ho». 

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