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Esclusiva

Febbraio 22 2022
La sfida di Giuditta in mostra a Palazzo Barberini

Un dialogo con lo storico dell’arte Claudio Strinati sulla rivoluzionaria violenza di Caravaggio e Artemisia Gentileschi

L’urlo agghiacciante di Oloferne, colto nell’ultimo spasmo della carne, e l’assoluta determinazione negli occhi di Giuditta: questo è il teatro di Caravaggio, l’immagine che diventa canone e che nel Seicento trasforma la rappresentazione dell’episodio biblico della decapitazione del comandante assiro.

A settant’anni dalla riscoperta del celebre olio su tela e a cinquant’anni dall’acquisizione da parte dello Stato italiano, le Gallerie Nazionali di Arte Antica presentano a Palazzo Barberini un percorso espositivo dedicato non solo alle versioni più belle di Giuditta e Oloferne, ma soprattutto a quelle che furono influenzate, in modo diretto e indiretto, dall’opera del Merisi, già parte della collezione del Museo.

La mostra, curata da Maria Cristina Terzaghi e visitabile fino al 27 marzo, assume l’opera di Caravaggio come nucleo di riferimento artistico e temporale, lo tematizza tuttavia estraendone un secondo polo: Artemisia Gentileschi.

Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento, questo il titolo completo dell’allestimento, diventa dunque un viaggio visuale e sensuale fra le ventinove versioni dello stesso episodio, fra i tre medesimi corpi – Giuditta, Oloferne e la fantesca Abra – immortalati ogni volta da un’intenzione e una sensibilità differenti e perturbanti.

«È una mostra bellissima, concettualmente e intrinsecamente, cioè dal punto di vista artistico, tematizzata in modo efficace e coerente per rappresentare anche una tendenza dell’epoca, una forte tensione sociale a cui la popolazione del tempo era molto sensibile». Claudio Strinati, storico dell’arte fra i massimi esperti italiani dell’opera di Caravaggio, descrive così l’allestimento aggiungendo che il soggetto rappresentato «rende visibile qualcosa di significativo per l’epoca», un conflitto non solo «tra uomo e donna ma tra classi sociali, anche se è un termine ancora improprio da usare nel Seicento».

È la scena, così come impressa da Caravaggio, cruenta e sanguinaria, a trasmettere tutto ciò. Prima di lui la rappresentazione «era cauta, non incentrata sulla decapitazione ma sui momenti immediatamente successivi». Caravaggio fa dell’acme emotivo il modello a cui si attengono tutti gli artisti dopo di lui. Nessuno, tuttavia, tranne forse Artemisia Gentileschi, riesce a eguagliare la complessità psicologica dei suoi soggetti o a riprodurre le stesse «emozioni che si addensano sui volti dei personaggi, non attraversati mai da un pensiero soltanto». Nella calma risolutezza di Giuditta, per esempio, si legge anche «un leggero disgusto» per l’uomo, forse, o per il proprio gesto di estrema violenza.

La sfida di Giuditta in mostra a Palazzo Barberini
Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli?, post 1654)
Giuditta decapita Oloferne, 1612 circa. Olio su tela, cm 159×126
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Nelle due versioni quasi identiche di Gentileschi – delle quali solo quella napoletana è esposta a Palazzo Barberini – c’è persino qualcosa in più. C’è la lotta fra i corpi e il sangue non solo a fiotti, ma riverso e vivido sulle lenzuola candide. C’è il dinamismo e lo sforzo di Giuditta, la torsione affaticata del suo busto e la partecipazione attiva di Abra, non più semplice spettatrice ma complice. «La sensibilità moderna vi ha letto spesso una rappresentazione della punizione femminile sul maschile, connessa all’episodio di violenza subìto dalla pittrice». È solo «soggettività interpretativa», che dipende più dalla visione del mondo attraverso i secoli che dalle non dichiarate intenzioni di Gentileschi, eppure il suo Giuditta decapita Oloferne, (1612 circa) ha la capacità di comunicare nel profondo con l’osservatore e immortalare un moto d’ira inequivocabile, che poco si addice all’eroina biblica e si avvicina più alla donna contemporanea.

Artemisia Gentileschi è colei che più di tutti interiorizza la lezione di Caravaggio, subendo come altri il fascino di un’opera “misteriosa” e quasi leggendaria, conservata e nascosta per anni dal suo originale proprietario, Ottavio Costa, per timore che venisse riprodotta e perdesse valore.

Chi ebbe modo di vederla, in rare occasioni nel corso del Seicento, ne rimase folgorato tanto che la mostra di Palazzo Barberini «è la storia non tanto della fortuna di un capolavoro, ma di una parola sussurrata all’orecchio, di una fuga di notizie, insomma di una soffiata», come scrive la curatrice Terzaghi nel saggio introduttivo del catalogo ufficiale. Il suo potere, che in parte risiede anche nell’irriproducibilità che l’ha contraddistinta, è quello «di un’icona, di un totem» che in ogni tempo e in ogni luogo mantiene ancora la sua caratterizzazione epifanica.

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In copertina: Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610). Giuditta decapita Oloferne, 1599 circa. Olio su tela, cm 145×195. Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini