«Ogni domenica mio padre voleva vedere Indiana Jones, Monicelli, Leone. Io tento di prendere queste cose e farne un film, cercando di guardare al cinema colossal con lo sguardo della commedia all’italiana». Mani tese sulle ginocchia e voce bassa. Al Globo d’oro, Gabriele Mainetti scuote la testa per tentare di cogliere tutte le domande riguardo il suo ultimo film, Freaks out. Le parole si accavallano e le voci diventano un tutt’uno indistinto.
Una squadra di circensi accoglie lo spettatore in un mondo costruito sul confine della fantasia. Quattro “freaks” con corpi deformi e identità incrinate. Un mentore, il loro salvatore, interpretato da Giorgio Tirabassi. La loro voce non intende nascondere una romanità verace ricalcata sull’atmosfera del tempo. «La forza delle parole può essere tale da creare un rapporto diretto con Dio. Sento quanto il dialetto e la sua musicalità siano caratteristici per l’identità della persona». La lingua assume il ruolo di punto di raccordo tra la realtà e la fantasia, un elemento di appiglio che trattiene lo spettatore dentro se stesso.
A Gabriele Mainetti serviva un anno, un’epoca precisa nella quale i mostri venissero derisi di fronte alla pubblica gogna. L’Ottocento, il tempo delle streghe, l’unificazione d’Italia. La scelta è stata il 1943, l’anno della caduta del fascismo. «Quel momento rappresenta il periodo in cui l’umanità ha combattuto il concetto di razza. Abbiamo lasciato da parte ogni pietismo, mettendo al centro la diversità».
Matilde, la protagonista interpretata dalla giovane Aurora Giovinazzo, appare come una semplice ragazzina. La sua pelle però risplende al ritmo della sua rabbia, un sentimento che non nasconde nel forte disprezzo che prova per se stessa. «Matilde a guardarla è una bella bambina, ma lei si sente la peggiore perché conta ciò che si ha dentro. È lo shock che si vive a farci sentire diversi».
Mainetti riconosce nel nazismo l’appiattimento della complessità. Tutto uguale, candido e perfetto come la normalità della razza. Franz vuole combattere al fronte ma, di fronte alla sua deformità, le risate dei medici gliel’hanno impedito. Diventare un “freak” appariva immediato, prestando le proprie doti all’intrattenimento della nazione. «Anche nella realtà tedesca, spesso raccontata solo come brutale, abbiamo tentato di restituire una complessità, riconoscendo un’immagine hitleriana con cui si potesse empatizzare. Volevo creare una persona che, da diverso, nel tentare di entrare nel club dei migliori fosse pronto a fare qualsiasi cosa».
Tra fiamme, spari e resistenza, Freaks out costruisce un mondo che si frantuma nel suo stesso tentativo di unirsi. È proprio quando queste diversità si innalzano, scolpendo dei picchi anomali sulla linea retta della normalità, che, per Gabriele Mainetti, i conflitti trovano la loro conclusione.