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Esclusiva

Marzo 4 2022
Il pugile nel Ghiaccio

Il cantautore Fabrizio Moro debutta alla regia insieme ad Alessio De Leonardis con una storia di marginalità e rinascita, in concorso al Globo d’oro

«Il dolore alle mani, che provi quando senti di aver dato tutto, nel ghiaccio diventa ancora più forte, più intenso. Ti fa capire di aver guadagnato la giornata». È il dolore del pugile che colpo dopo colpo cerca il proprio riscatto. Con queste parole Massimo (Vinicio Marchioni) instilla in Giorgio (Giacomo Ferrara) il bisogno di un cambiamento, di una via d’uscita dalla spirale della malavita di periferia.

«Il desiderio di fare un film era in me da tempo, da circa vent’anni, quando frequentavo l’Istituto Cine-Tv Rossellini a Roma» afferma Fabrizio Moro. «L’idea è arrivata dopo aver conosciuto il pugile Mirko Valentino. L’ho visto combattere per dodici round e perdere ai punti. La sua storia e la sua resistenza mi hanno colpito al punto da invitarlo a un mio concerto al forum di Assago e anche lì il pubblico ha risposto con emozione. Ho capito di aver trovato il mio antagonista». È iniziato così il vero e proprio lavoro di scrittura che ha portato subito alla scelta dei due protagonisti, Ferrara e Marchioni.

La sfida maggiore, soprattutto per una prima regia come è quella di Moro, è stata trovare una chiave di lettura inedita, in grado di aggiungere qualcosa rispetto ai grandi film già ambientati nell’ambiente della boxe. Lo conferma anche Giacomo Ferrara: «Ho cercato di fare un lavoro diverso, pensando all’iconografia dei pugili cinematografici che, come De Niro in Toro Scatenato, erano personaggi rabbiosi dentro e fuori il ring. Il mio Giorgio è invece completamente perso, malgrado tutti lo amino. È un personaggio bloccato che riesce a liberarsi grazie all’amore di chi lo circonda. Riesce a crescere e far esplodere quella rabbia per andare avanti».

Video di Niccolò Ferrero

Sulla difficoltà tecnica, invece, di girare una scena madre sul ring che fosse davvero diversa da tutto quanto visto fino a oggi, De Leonardis e Moro parlano della scelta di girare in piano sequenza. Per due round lo spettatore assiste a una precisa coreografia, studiata in ogni dettaglio con l’intera troupe, compresi operatori di macchina e truccatori. «È stato un lavoro di gruppo importante, in cui anche un paio di secondi sono diventati essenziali per coordinarsi, inquadrare i colpi, aggiungere il sangue, senza interrompere la ripresa».

La ripresa continua, nella sua complessità di realizzazione, attesta anche l’affiatamento sul set e la riuscita di questa inedita co-regia. Nasce così una storia universale di riscatto, che si colloca in un immaginario cinematografico già ricco ma non ancora saturo. Un’opera prima che mette insieme mondi diversi e riesce nella sua sfida.

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