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Esclusiva

Marzo 22 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 23 2022
«Il giornalista vive per lo scoop» Zeta incontra Massimo Lugli

Lo storico cronista di Repubblica spiega i segreti della professione, quello che cambia e quello che resta nel lavoro del giornalista

«Una leggenda del mestiere», così presenta Massimo Lugli alla classe del Master in Giornalismo Stefano Costantini, suo caporedattore della Cronaca di Roma di Repubblica. Specialista di cronaca nera fin dagli esordi a Paese Sera a 19 anni, ha poi seguito per Repubblica molti delitti che sono ormai entrati nell’immaginario collettivo italiano, come il giallo di Via Poma e l’omicidio Marta Russo. Una lunga carriera alle spalle, tanti romanzi pubblicati ma nessuna voglia di «togliere il cappotto da cronista», tanto che anche ora dalle colonne del Foglio ha bruciato i colleghi, dando per primo la notizia della riapertura delle indagini sul delitto di Via Poma.

«Un giornalista che non vive per fare lo scoop non è un giornalista» è la prima massima che Lugli restituisce agli studenti col suo stile schietto, «Il giornalismo è un mestiere individuale».

Da cronista navigato il suo intervento ha una struttura molto chiara, che parte dal racconto del passato, perché anche se alcuni dei fatti raccontati «possono sembrare archeologia del giornalismo, i principi base rimangono» e le tre parole magiche sono sempre le stesse: «Vai sul posto». Per dimostrare il valore di questa frase Massimo Lugli racconta il suo primo compito da cronista che fu quello «raccontare il cadavere» in occasione di un omicidio appena arrivato in redazione. Al ritorno in redazione il capocronista Walter Bozzoli lo interrogò su quanto aveva visto. Il giovane Lugli rispose a tutte le domande fino a quando, non ricordando il colore della cintura della vittima, provò a indovinare e a quel punto Bozzoli gli sbatté davanti la foto del corpo esclamando: «La cinta non si vede, il giornalismo è esattezza».

Un racconto semplice che dà l’idea di cosa significasse fare il cronista di nera negli anni Settanta, prima del codice delle privacy, quando i giornali volevano le foto del morto che bisognava cercare di ottenere in tutti i modi, anche a rischio di essere attaccati dai parenti delle vittime: «Se avessi un euro per ogni volta che mi hanno chiamato “sciacallo” avrei il deposito di Zio Paperone». Un periodo in cui non ci si poteva appoggiare a internet e quindi era fondamentale il rapporto con le fonti di polizia con cui si creava un legame di amicizia.

Ciò che cambiò tutto nel mestiere del cronista furono “Gli anni di piombo”, quando i giornalisti divennero allo stesso tempo bersagli e interlocutori delle Brigate Rosse. Un rapporto che costò a Lugli anche un’incriminazione per terrorismo quando riuscì a dare prima della polizia la notizia di un testimone segreto per l’omicidio di Marco D’Antona, docente universitario assassinato nel 1999 dalle nuove Br. Una denuncia poi tramutatasi in una multa per rivelazione di segreto istruttorio, che «è come una medaglia d’oro perché è la conferma di aver fatto uno scoop».

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Un passato «avventuroso» che ora ha lasciato il posto a un presente «più deprimente» perché è aumentata la considerazione che nei giornali si dà alle notizie di agenzia, cosa che ha portato a coltivare molto meno la cronaca nera quotidiana, che però continua ad avere grande successo sui siti e soprattutto in Tv, dove i fatti vengono ancora seguiti fin nei minimi particolari.

L’altra difficoltà che Massimo Lugli individua nel giornalismo odierno è il fatto che tutti i comandi delle forze dell’ordine si siano dotati di un ufficio stampa che fa perdere il rapporto diretto con le fonti e frappone un filtro non solo tra il giornalista e le indagini, ma anche tra i giornalisti e i fatti. «Il vostro compito sarà scoprirli perché i fatti appartengono alla città» è l’incoraggiamento alla classe. A far tornare in auge il ruolo del giornalista di cronaca ci ha pensato la guerra in Ucraina. Durante un conflitto il mantra “vai sul posto” è più necessario che mai per raccontare quelle notizie che altrimenti si perderebbero nella propaganda, perché «se ci pensate l’inviato di guerra è un cronista che va su un enorme delitto».