«Stanley, è impossibile che il tuo autista italiano provenga da lì, devi credermi. Nessuna creatura può essersi salvata dall’inferno di bombe piovuto su Cassino». Ma Kubrick non poteva dare retta alle asserzioni del suo amico pilota che nel 1944 aveva preso parte allo sfondamento della linea Gustav tra le file degli alleati, costato il sangue di oltre trentamila soldati e di un numero imprecisato di civili, i cui corpi dilaniati riposano nel ventre acquifero del basso Lazio, che fu teatro di una delle battaglie più massacranti della seconda guerra mondiale. «E invece Emilio viene proprio da lì, e un giorno da quelle parti in Italia ambienterò uno dei miei film».
Emilio D’Alessandro della guerra ricorda poco o nulla. Del suo amico Stanley Kubrick, invece, tutto. Ne è stato per trent’anni l’autista, il collaboratore fidato, il confidente. Ai suoi trent’anni al fianco dell’iconico regista statunitense ha dedicato il libro di memorie “Stanley Kubrick e me”, scritto a quattro mani con Filippo Ulivieri, dal quale é stato tratto il docufilm “S is for Stanley”, diretto da Alex Infascelli e premiato nel 2016 ai David di Donatello come miglior documentario. Di anni, oggi, Emilio, ne ha «otto zero» – di dire ottanta non ne vede il motivo – ha voglia di ricominciare il suo racconto da capo, e si accomoda su un divanetto accanto alla moglie Janette, in un ambiente riservato del Teatro Manzoni di Cassino, città natale dove è tornato a vivere dopo la morte di Kubrick.
Tutto inizia a Londra all’inizio degli anni settanta, Emilio si è trasferito in Gran Bretagna per trovare fortuna. Negli uffici della Mac’s Minicab, piccola agenzia di trasporti per la quale lavora, squilla il telefono. É richiesta una consegna urgente in un appartamento di Thamesmead, quartiere moderno a sud est di Londra. É quasi mezzogiorno e sulla città nevica da diverse ore. «I sindacati raccomandano agli autisti di non mettersi alla guida», informa uno speaker alla radio, mentre il traffico scorre rallentato da una patina di ghiaccio scuro che primeggia sull’asfalto, rendendolo scivoloso.
Ma la paga è buona, ed Emilio con le auto ci sa fare. Accetta il lavoro e si dirige verso gli Associated British Pictures di Bohermood, dove lo attende, bianchissimo e improbabile, l’oggetto da consegnare: una scultura. «Si trattava di un grosso fallo in porcellana». Con il quale attraversare Londra da parte a parte. «Ricordo ancora le facce della gente ai semafori» sorride arrossendo, tradito in volto da un imbarazzo remoto.
Sulla strada verso Thamesmead non può immaginare di essere diretto sul set di Arancia Meccanica. Che di lì a poco quella stravagante scultura in porcellana si prenderà la scena. Che del regista – uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi – sta per diventare l’autista personale. «Stanley aveva perso le speranze: vuoi per le condizioni meteo, vuoi per le raccomandazioni dei sindacati, non credeva che quell’oggetto di scena potesse arrivare, puntuale e intatto, a destinazione». E invece. «E invece rimase compiaciuto del mio lavoro, chiese il mio nome alla Mac’s Minicab e lo annotò sul suo taccuino».
Trascorsero poche settimane ed Emilio ricevette una chiamata dalla Hawks Films, casa di produzione del cineasta americano, reduce dal successo di 2001 – Odissea nello Spazio. Mr. Kubrick desiderava incontrarlo. «Non avevo idea di chi fosse, mi dissero che si trattava di uno dei più grandi registi in circolazione e che mi avrebbe atteso all’ingresso degli studi della Hawks Films. Non sapevo davvero né chi né cosa aspettarmi». Emilio aveva già lavorato per qualche tempo come autista per la MGM – la celebre, ruggente compagnia di produzione cinematografica – accompagnando in giro per la città numerosi registi e attori. Di loro trattiene ancora, nelle narici, un ricordo. «Profumavano tutti di fiori». E così se ne stava sulla soglia degli studios, provando a intercettare qualcuno che avesse quell’odore.
Fin quando un uomo, che aveva tutta l’aria di essere un buon giardiniere, non si rivolse a lui con un «good morning». E tendendogli la mano completò «my name is Stanley Kubrick». «And my name is Emilio D’Alessandro». Seguì un sorriso reciproco e incancellabile. Una stretta di mano ancora intatta. Qualche rigida domanda sul suo stile di guida, poi la sentenza: «Sarai il mio autista». Emilio guiderà per Stanley per quasi trent’anni. Fino a diventare, come dirà il critico cinematografico Tatti Sanguinetti, “il suo 007”.
«C’erano volte in cui Stanley mi chiedeva di andare in incognito sul set di alcuni colleghi portando con me un registratore. Voleva assicurarsi che i suoi consigli venissero seguiti, specialmente quando a chiederli erano gli allievi George Lucas e Steven Spielberg». Altre volte spettava a Emilio il compito di tradurre per Stanley telefonate “cifrate”, quando a rispondere dall’altra parte del telefono era un connazionale d’eccezione, Federico Fellini. «Parlavano di musica», e lo facevano in cifre. «Si trattava spesso di colonne sonore da sovrapporre al girato in fase di montaggio. Per esempio, al frame 5 della scena 7, dal minuto 3 al minuto 8. Tradurre Fellini per Stanley era – come dire – partecipare a una tombola…»
«Sul set di The Shining Stanley invitò per la prima volta i suoi genitori, erano molto anziani. Stava girando la scena in cui Jack Nicholson imbraccia un’ascia e scardina la porta della stanza in cui Shalley Duvall si asserraglia, urlando terrorizzata». Emilio era lì, ad assicurarsi che tutto intorno a Stanley fosse in ordine, che nulla lo inquietasse. «Era molto preoccupato per i suoi genitori, venne verso di me dicendomi “Emilio, stai con loro durante le riprese, e se qualcosa dovesse non andare per il verso giusto, ti prego, fammi un cenno e io mi fermo”». Non ce ne fu bisogno. «Ricordo il loro sguardo divertito, sereno. Lo rassicuravo con la coda dell’occhio. Alla fine della scena corse verso di noi e sentii suo padre e sua madre commossi dirgli “Stanley, sei stato bravissimo”»
«Emilio è il compagno perfetto per un viaggio nell’ignoto – gentile, rassicurante, ben capace di discernere ciò che è vero e importante da ciò che non lo è». É quanto dice di lui Candia McWilliam, scrittrice e sceneggiatrice di Eyes Wide Shut, l’ultimo film di Kubrick. «All’inizio degli anni novanta avevo fatto rientro a Cassino per ricongiungermi con la mia famiglia. Durante un breve viaggio in Inghilterra rividi Stanley. Era alle prese con Eyes Wide Shut e mi pregò di ritornare al suo fianco, dicendomi che altrimenti non sarebbe riuscito a completare le riprese. Non fu difficile per lui convincermi…» sorride Emilio, cercando Janette con lo sguardo.
«Mi propose anche di recitare una breve parte nel film, interpretando un edicolante italiano a New York. Dissi di sì. D’altra parte si trattava di porgere un giornale a Tom Cruise e ricevere in cambio una manciata di dollari. Una scena di pochi secondi. Perché piacesse a Stanley ci vollero quattro settimane…»
Le riprese di Eyes Wide Shut misero a dura prova l’intera troupe, e costarono la parte a un giovane Harvey Keitel, licenziato in tronco sul set da Kubrick in persona. Un licenziamento del quale Emilio si rese, suo malgrado, “complice”. «Per esigenze di copione serviva che il personaggio di Victor Ziegler, interpretato in origine proprio da Harvey Keitel, dicesse ‘ti amo’ con un accento italiano. Ma Keitel non riusciva, e all’ennesimo ciak fallito Stanley mi fece convocare, chiedendomi di pronunciarlo all’italiana. Per Keitel non ci fu verso di riprodurre quel “ti amo”, per Sydney Pollack invece sì. Ed è anche per questo che Victor Ziegler porta il suo volto…»
Eyes Wide Shut fu l’ultimo lavoro di Kubrick, morto prima che il film approdasse nelle sale. Nessuno, a parte Emilio, è a conoscenza del fatto che Stanley stesse preparando un film in Italia. «Voleva raccontare la battaglia di Cassino. Mi chiedeva spesso immagini della mia infanzia, riferendomi di un suo amico aviatore che aveva preso parte al bombardamento: era incredulo del fatto che io potessi essere vivo». Ancora una volta gli chiese di dargli una mano, «ma ci fu appena il tempo di mettere in ordine le foto, i ricordi, e di pensare ai primi sopralluoghi». Kubrick morì stroncato da un infarto nella sua villa di Childwickbury, all’età di settant’anni.
Dopo la sua morte Emilio ricevette da Christiane, la moglie, il compito di “archiviare” tutti i suoi effetti personali. D’altra parte a nessun altro, se non a lui, Stanley aveva concesso in vita di mettere piede nei suoi uffici per riordinarli. «Fu un lavoro lungo sei mesi. Catalogare le sue cose, sigillare le scatole, chiudere le stanze…» Mentre ne parla è come se accarezzasse tutto. Con la punta delle dita. Con la coda degli occhi. Che ora si fanno lucidissimi.
«Lasciai ogni prova della vita di Stanley in ordine al piano terra, e consegnai le chiavi a Christiane.» Gli venne proposto di restare, per lavorare con altri registi. «Ti ringrazio Christiane, ma questa volta devo proprio andare. Il giorno in cui Stanley mi ha chiesto di tornare gli ho giurato che nessuna distanza ci avrebbe più separato, a parte la morte. Avrei voluto soltanto che non fosse lui ad andarsene per primo…»
E fu così che Emilio, insieme a Janette, decise di fare ritorno a Cassino, da dove guarda il cielo color piombo dominare la valle ancora gravida di mine inesplose. Sorride pensando all’aviatore inglese, e attende che Stanley passi per un capriccio.
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