Daniel irrompe nel palazzo occupato all’Esquilino, nel centro di Roma. Gli altri celerini gli stanno attorno e si coprono le spalle a vicenda. Gli abitanti di quel piccolo stato guardano i poliziotti con diffidenza e con la certezza che, tra poco, una casa non ce l’avranno più. Nella folla però, a capo degli occupanti, avanza il fratello di Daniel e, dietro di lui, la madre. «La fratellanza inserisce il protagonista in due famiglie che hanno un conflitto irrisolvibile» dice Hleb Papou, regista de Il legionario, alla sua presentazione al Globo d’oro.
La Celere è una famiglia, «indossare il casco crea una forma di fratellanza che va al di là dell’etnia o del colore della pelle». Daniel è l’unico poliziotto nero di Roma, ma una volta indossato il casco blu non esiste differenza o discriminazione. «L’idea è nata nel 2015 quando abbiamo visto per la prima volta la foto di un poliziotto nero nel corpo di Roma» dicono Giuseppe Briganti ed Emanuele Mochi, co-sceneggiatori insieme al regista.
«Volevo raccontare questa storia con la massima onesta e imparzialità possibile. Non vogliamo stare da nessuna parte. Vogliamo affrontare il problema e aprirne il dibattito». La questione abitativa è il fondamento attorno al quale il film si costruisce. Il palazzo, un micro stato multi culturale, un miscuglio di nazionalità, età e stili di vita, rinchiude al suo interno la narrazione per far emergere le trame della difficoltà di vivere senza casa.
Fin dalla locandina che ritrae il viso di Daniel protetto dalla visiera del casco, viste le continue proteste e le manifestazioni che denunciano il razzismo il Italia, ci si aspetterebbe una presa in carico della questione. Ma ciò non accade. Daniel è membro di una seconda generazione integrata che parla un dialetto romano di borgata. «Non volevamo ricreare gli archetipi dell’immigrato, del povero e dello straniero. Ora c’è la moda del parlare a periodi delle seconde generazioni e del volerle includere. Noi non l’abbiamo fatto per moda, ma per necessità» commenta Hleb Papou.
Il legionario trova il suo baricentro nella ricerca costante di un luogo che si possa definire casa. Che sia una vera o propria, quella in cui si nasce o quella che si sceglie. Tra queste due è chiamato a scegliere Daniel e a prendere una posizione tra l’amore per la famiglia e gli ordini dello Stato. Nella sua presa di coscienza, Papou racconta un’Italia nascosta che riposa nella zona buia delle narrazioni quotidiane, nei problemi che si intravedono con la coda dell’occhio passeggiando per le città e che animano le ultime pagine della cronaca cittadina. «Come l’Italia viene raccontata? Ci sono tante cose che la gente non sa e i racconti continuano a essere popolati da stereotipi e luoghi comuni. Noi abbiamo provato a cambiare lo sguardo».