C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974)
Una Seicento verde petrolio avanza, vecchia e ammaccata. Per tre volte il montaggio ripropone la scena, sempre identica a se stessa, una per ogni personaggio che scende e si appresta a scoprire l’ultima parte di un racconto che dura da tre decenni.
Luciana (Stefania Sandrelli), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) sbirciano oltre l’alta recinzione della villa di Gianni (Vittorio Gassman), delusi nello scoprire in lui un padrone, lontano da tutti gli ideali che nel tempo hanno unito i loro percorsi.
Comincia così un viaggio a ritroso, in cui la grana della pellicola degli anni Settanta, con i suoi colori desaturati e tenui, lascia il posto ai forti contrasti del bianco e nero neorealista. Il sottotesto dell’estetica cinematografica racconta una storia nella storia, un’identità collettiva italiana che attraverso i film compie un esercizio di memoria. «Senza memoria non esiste nessuna cultura», affermava Ettore Scola in un’intervista del 1984 per il programma Rai Vediamoci sul Due. «Una cultura senza passato, senza indicazioni né per il presente né per il futuro è una cultura anomala che non so come possa sopravvivere».
Il Dopoguerra e gli anni Cinquanta, affrontati da un film del 1974, sono passato recente, ancora vivo nell’esperienza degli spettatori. Scola se ne distacca con sguardo critico, agendo per sottrazione del colore. Il bianco e nero è al tempo stesso strumento concettuale, stilistico e tematico. È il mezzo della memoria e del metalinguaggio, della riflessione del regista su ciò che viene messo in scena.
Appartengono solo alle scene in bianco e nero della prima metà del film, infatti, i soliloqui in cui i personaggi esprimono pensieri, motivazioni e segreti.
Il bianco e nero del teatro e il colore della vita
Nero tutto intorno, con la forte luce di un solo riflettore che illumina i volti di Sandrelli e Gassman, come in un quadro teatrale. Gli occhi di Luciana e Gianni si incontrano per la prima volta e i rumori dell’osteria popolare svaniscono, trasformandosi in musica per un passo a due.
È solo uno dei momenti di C’eravamo tanto amati in cui è sufficiente che le ombre si facciano più dense e i tagli di luce più netti, affinché la fotografia in bianco e nero del cinema del reale diventi invece quella del sogno, del teatro e della finzione. Nel momento in cui Luciana sopravvive a un tentativo di suicidio, tuttavia, la realtà e il presente prendono il sopravvento e il film si divide in due esatte metà, colorandosi.
Mentre i quattro protagonisti si allontanano gli uni dagli altri, in altrettante direzioni, per incontrarsi solo anni dopo, il manto rosso di una Madonna disegnata sull’asfalto diventa sempre più acceso. La vita scorre e l’Italia cambia e a Scola basta una sola immagine per comunicarlo.
«È lo snodo narrativo del film, ottenuto con una successione di fotogrammi saturati uno per volta», come spiegato nella monografia del regista a cura di Stefano Masi (Ettore Scola. Uno sguardo acuto e ironico sull’Italia e gli italiani, Gremese Editore, 2006).
Tutto quello che viene rappresentato in seguito ha il retrogusto amaro di una vita vissuta nella nostalgia dei legami passati.
«Il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà»
La Resistenza sulle montagne, il referendum del 1946 e l’Italia di De Gasperi, la Dolce Vita di Fellini negli anni Sessanta e la riforma del diritto di famiglia nella metà dei Settanta. L’Italia si guarda allo specchio nei suoi primi tre decenni repubblicani e affida il suo riflesso alla rappresentazione immortale del cinema, di cui si fa monumento e documento, attraverso citazioni dirette e un cast artistico e tecnico che costituisce il meglio dell’ultima commedia all’italiana.
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