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Esclusiva

Dicembre 6 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Dicembre 12 2022
Dopo il Mondiale bis di Coppa d’Asia nel Golfo Persico

L’interesse dei paesi arabi per i grandi eventi sportivi approfitta del vuoto lasciato dalla Cina

Un mondiale non basta. L’avventura di Qatar e Arabia alla Coppa del Mondo si è conclusa ai gironi, ma quella dei grandi eventi calcistici nella penisola araba è appena iniziata. Il 5 dicembre, mentre in Qatar si attendeva la sfida tra Croazia e Giappone valida per gli ottavi di finale, è arrivata la notizia che l’India ha ritirato la sua candidatura ad ospitare la Coppa d’Asia 2027, lasciando senza rivali l’Arabia Saudita, che dovrebbe aggiudicarsi il torneo. La coppa resterà a lungo nella penisola araba, visto che l’edizione 2023 si sarebbe dovuta tenere in Cina, ma il gigante asiatico si è ritirato a causa delle restrizioni della sua dovute alla politica “zero covid” e come ospite di emergenza si è ripiegato di nuovo sul Qatar, che aveva gli stadi pronti per il mondiale in corso. A quale intento corrisponde questo interesse per il gioco più bello del mondo nel golfo perisco? «C’è un disegno che va avanti da prima del 2010 e ha portato la rivalità dei paesi del golfo a esplicitarsi anche attraverso il calcio, con il Paris Saint Germain in mano alla famiglia reale qatariota e il Newcastale appena acquistato dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita Pif. Una strategia che ha portato il Qatar a diventare il primo paese del golfo a organizzare il mondiale», spiega Nicola Sbetti, docente di Storia dell’educazione fisica e dello sport all’Università di Bologna, che di recente ha pubblicato insieme a Riccardo Brizzi il libro La diplomazia del pallone. Storia politica dei mondiali di calcio.

In Occidente lo chiamano “sportwashing”, la pratica di utilizzare la popolarità dei grandi eventi sportivi per far passare in secondo piano le violazioni dei diritti umani che avvengono nei paesi organizzatori. Per il professor Sbetti si tratta però di un termine abusato. «Il problema della declinazione di “sportwashing” è che non è scientifica. È una parola inventata dagli attivisti per condannare, legittimamente, l’uso politico dello sport da parte di Paesi che non rispettano i diritti umani. È un’espressione catchy, ma descrive qualcosa che è sempre successo, anche con le democrazie».

Nel caso della monarchia saudita si tratta di un progetto di ampio respiro che ha comportato grandi investimenti fin dal 2018 e che ha un punto di arrivo preciso: il 2030. È l’anno in cui dovrebbe arrivare a termine il programma Saudi Vision 2030, che prevede un rinnovamento del paese in tutti i settori, dal fisco alle energie rinnovabili alla qualità della vita, di cui primo promotore si è fatto il principe ereditario Mohamed Bin Salman. Ciliegina sulla torta sarebbe ospitare nella stessa data il mondiale di calcio, come hanno fatto i vicini del Qatar. Il principe ha avanzato la candidatura del suo paese, ma insieme a Grecia ed Egitto, una mossa volta ad aggirare la regola che impedirebbe all’Asia di ospitare la rassegna iridata per due edizioni dopo il 2022. Una candidatura che deve fare però i conti con il rinnovato interesse dell’Occidente verso i grandi eventi sportivi (come dimostrano le città in cui avranno luogo le prossime tre Olimpiadi: Parigi, Los Angeles, Brisbane). «Tutto il resto del mondo sembra interessato, non mi sorprenderebbe se la Coppa del Mondo 2030 andasse alla cordata Argentina-Cile-Uruguay-Paraguay oppure alla candidatura di Spagna e Portogallo insieme a, qui si con una forte scelta politica, l’Ucraina». Il problema dell’Arabia è che nonostante gli ingenti investimenti si trova tutti i grandi eventi già prenotati. Nel frattempo si concentra sull’egemonizzare lo spazio asiatico approfittando dei vuoti lasciati dagli altri: «La Cina, almeno per il momento, si è ritirata dalla scena per la sua politica sul Covid, Giappone e Corea non hanno avanzato candidature e il Sud Est Asiatico forse non è ancora pronto. L’India sembra avere difficoltà con i grandi eventi e per questo ha lasciato andare la Coppa d’Asia 2027, che andrà all’Arabia, così come i giochi asiatici invernali del 2029», commenta Sbetti.

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La ragione di questi sforzi? Di certo non il ritorno economico, visto che il Qatar per il Mondiale in corso ha speso più di 200 miliardi di euro, cifra che l’evento non potrà mai far rientrare. «La differenza con i Paesi democratici è proprio questa», il commento del professore. «In Occidente deve esserci un guadagno o almeno le perdite devono essere contenute. I Paesi autoritari possono rispondere ad altre esigenze». Quali? «In questo momento ci sono soldi da spendere, anche grazie ai maggiori acquisti di gas e petrolio da parte dell’Europa dovuti ai tagli delle forniture russe. Ma l’obiettivo a medio-lungo termine di questi Paesi è proprio quello di presentare un volto non legato solo alla vendita di idrocarburi, ma proporsi anche come mete turistiche e partner commerciali». Il calcio può avere un ruolo fondamentale con la sua capacità di stringere relazioni e aprire canali di comunicazioni. «Senza dimenticare che il calcio in Europa è in mano alle grandi élite imprenditoriali».