Stoccolma, Svezia, 1958. Pochi giorni all’inizio del Campionato del Mondo di Calcio. Un funzionario della Fifa sta distribuendo le maglie da gioco ai calciatori. Al momento della nazionale brasiliana si avvicina un ragazzino di 17 anni a cui il funzionario consegna la maglia numero 10. Fino ad allora era stato un numero come tanti, quello che si assegnava a chi giocava a supporto della prima punta. Ma dopo che quel ragazzino avrà realizzato una tripletta in semifinale e una doppietta in finale per trascinare il Brasile al suo primo titolo mondiale, il numero 10 sarà il numero del calcio. Il ragazzo si chiamava Edson Arantes do Nascimento, ma ormai il mondo lo conosceva semplicemente come Pelé. La sua leggenda era appena all’inizio.
Più in alto della Luna
Pelé, morto oggi a 82 anni, è sport, cultura, leggenda. Il soprannome O Rei sintetizza quello che la sua carriera ha significato per il mondo del calcio e per l’intero popolo brasiliano. Quando Pelé trascina il Brasile al successo nella Coppa del Mondo 1958, quella vittoria riesce a esorcizzare lo psicodramma collettivo che aveva colpito il paese otto anni prima, quando la Nazionale era stata sconfitta in casa nella partita decisiva dall’Uruguay in quello che passò alla storia come il Maracanazo. Il suo primo gol contro la Svezia in quella finale viene considerato tra i più belli di sempre e di lì in poi a suon di dribbling, gol e giocate si guadagnerà il suo posto nell’Olimpo del calcio.
Riassumere Pelé in numeri è riduttivo, ma quando sono così impressionanti costituiscono parte integrante della leggenda. I gol ufficiali sono 757, di cui 77 con la Nazionale verdeoro, record appena pareggiato da Neymar durante gli ultimi mondiali. Il computo totale della FIFA arriva però a 1281, contando anche quelli in gare non ufficiali. Il suo millesimo gol, segnato il 19 novembre 1969, riuscì persino ad oscurare la seconda volta dell’uomo sulla luna, con i quotidiani più moderati che divisero le prime pagine a metà, mentre altri preferirono dare tutto lo spazio a O Rei. Il numero che cementa il nome di Pelé nella storia del calcio è un altro: tre. Tre come le Coppe del Mondo vinte da giocatore, impresa mai riuscita a nessun altro fino ad oggi e che non sembra essere all’orizzonte (l’Argentina di Messi ha appena impedito che Mbappe arrivasse a quota due a soli 24 anni). Come Messi e Ronaldo il fenomeno brasiliano fu capace di restare ad altissimi livelli per oltre dieci anni e non è un caso che la FIFA nel 2004 assegnò a lui il compito di compilare il FIFA 100, la lista dei 125 giocatori più forti di sempre.
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Il dualismo con Maradona
Pelé il più grande di sempre? Non per tutti. Facendo un giro per le strade di Napoli si potrebbe sentir risuonare un motivetto che fa “Maradona è megl’ e’ Pelé”. Già Maradona. L’unico rivale (almeno fino all’apoteosi di Messi in Qatar) in grado di contendergli il titolo di più grande della storia. Certo tre mondiali contro uno dovrebbero silenziare qualunque dibattito, ma Maradona nel 1986 riuscì nell’impresa di trascinare alla vittoria una squadra dai mezzi tecnici mediocri e che si aggrappava ai colpi del suo fuori classe. Pelé, al contrario, recitò sempre la parte del primo violino, ma all’interno di orchestre fenomenali. Nel 1958 aveva accanto giocatori del calibro di Didì, Vava e soprattutto Manè Garrincha, forse il più grande dribblatore di tutti i tempi. Con Pelé e Garrincha contemporaneamente in campo il Brasile non perse mai una partita. Nel 1962, quando il numero 10 brasiliano si infortunò alla seconda partita del mondiale cileno, i suoi compagni riuscirono comunque a portare a casa la Coppa del Mondo. A differenza del dualismo tra Messi e Ronaldo, quello tra Maradona e Pelè non fu mai un confronto diretto, perché i due fenomeni appartenevano a generazioni differenti. Se il brasiliano non ebbe uguali in mezzo al campo per 12 anni, la parabola dell’Argentino fu più breve, ma il fatto di essere riuscito a far vincere quell’Argentina e una piazza come Napoli lo hanno elevato su una dimensione che ha reso il confronto irrisolvibile. Alla fine delle rispettive carriere i due mostrarono soltanto rispetto nei confronti l’uno dell’altro. Dopo la morte del Pibe de Oro, il 25 novembre 2020, Pelé impiegò una settimana per affidare ai social il suo saluto: «La tua rapida partenza non mi ha permesso di dirtelo, quindi scriverò: ti voglio bene Diego. Grande amico grazie mille per tutto il nostro viaggio. Un giorno, in paradiso, giocheremo insieme nella stessa squadra. E sarà la prima volta che alzo il pugno in aria in trionfo in campo senza celebrare un goal. Sarà perché finalmente posso abbracciarti di nuovo».
Pelé e l’Italia
Pelé legò quasi la sua intera carriera alla squadra Brasiliana del Santos con cui segnò 643 gol in 660 partite vincendo svariati campionati e due Copa Libertadores, prima di chiudere nei New York Cosmos: la sua ultima partita, nel 1977, un’amichevole contro il Santos in cui giocò un tempo con una squadra e uno con l’altra. All’epoca i giocatori sud americani erano restii a venire in Europa e chi lo faceva veniva di fatto esiliato dalla nazionale. Ma anche allora lo scouting europeo teneva gli occhi ben aperti oltre oceano e avere Pelé in squadra sarebbe stato il colpo di mercato del secolo. Subito dopo il mondiale del 1958 l’Inter di Angelo Moratti andò a un passo dal riuscirci. Anzi, ci era riuscita. Il patron dei nerazzurri, desideroso di regalare alla sua squadra il giocatore più forte del mondo, aveva fatto un’offerta faraonica al Santos ed era riuscito a chiudere l’affare. Quando la notizia si diffuse in Brasile, tra i tifosi del Santos scoppiò la rivolta e alcuni arrivarono addirittura a minacciare fisicamente il presidente del club, che chiamò Moratti pregandolo di rinunciare all’affare. Davanti al pericolo per la vita del collega, a malincuore, Moratti stracciò il contratto.
Le strade di Pelé e dell’Italia si incroceranno di nuovo sul campo da gioco a Città del Messico, nella finale del Mondiale 1970. È la prima volta che si sfidano due squadre che hanno già vinto il Mondiale, due volte a testa per la precisione. In virtù del regolamento chi vince si porta definitivamente a casa la Coppa Rimet (che a partire dall’edizione successiva verrà sostituita dall’attuale Coppa del Mondo). Il primo tempo sembrerebbe anche equilibrato e si conclude sull’1-1. A illuminarlo un gol, neanche a dirlo, di Pelé, che su un cross dalla fascia salta insieme al difensore azzurro Tarcisio Brugnich, ma il brasiliano riesce a rimanere in aria per un tempo che sembra sfidare la forza di gravità e mette in rete con un colpo di testa. Il secondo tempo sarà senza storia: il Brasile di Pelé, Rivelino e Jairzinho è forse la squadra più forte di sempre e la partita si conclude sul 4-1, sugellata da un gol di squadra meraviglioso realizzato dal terzino Carlos Alberto su assist di O Rei, che vince la sua terza storica Coppa del Mondo.
L’ultimo mondiale a tifare Brasile
Il Mondiale in Qatar Pelé lo ha vissuto dal letto dell’ospedale Albert Einstein di San Paolo, dove era ricoverato dal 29 novembre a causa del tumore al colon che alla fine ha avuto la meglio su di lui, con tutta la famiglia riunita al suo capezzale. Anche da lì non ha mai smesso di supportare la Nazionale di Tite, affermando addirittura che erano le sue vittorie a dargli la forza di andare avanti. Alla fine a vincere sono stati gli eterni rivali dell’Argentina e quel Leo Messi che ora forse può davvero contendergli il titolo di più grande di sempre. Dopo la finale O Rei si è congratulato con lui e con il francese Kylian Mbappe, l’unico teenager dopo Pelé a segnare e vincere in una finale mondiale nel 2018. Ma il messaggio più importante lo aveva rivolto a Neymar, suo erede in patria: «Il nostro dovere più grande come atleti è ispirare», aveva scritto su Instagram dopo la sconfitta del Brasile con la Croazia in cui Neymar aveva eguagliato il suo record di gol in Nazionale: «Questo valorizza la grandezza del tuo successo. Tuttavia, nessun numero è superiore alla gioia di rappresentare il nostro paese». Da qui l’invito al giovane calciatore a non lasciare la nazionale, superando la delusione per l’amara sconfitta: «La tua eredità è ben lontana dalla fine». E chissà che tra questa eredità quattro anni non si traduca in una Coppa del Mondo che, come Messi a Maradona, Neymar possa dedicare alla memoria del campione che non c’è più.