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Esclusiva

Dicembre 16 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Dicembre 17 2022
Sinisa Mihajlovic, il terzino che nacque due volte

L’ex allenatore del Bologna si è spento oggi a Roma, stroncato dalla leucemia acuta con cui lottava dal 2019

È finita l’ultima partita di Sinisa Mihajlovic, l’ex allenatore del Bologna è morto oggi nella clinica Paideia di Roma, dopo una strenua lotta con la leucemia che durava dal 2019. Una «morte ingiusta e prematura» recita il comunicato della famiglia, «Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti». Cuore di lottatore, la malattia non gli aveva impedito di continuare ad allenare anche quando entrava e usciva dall’ospedale. «Mi chiamo Siniša e sono nato due volte», sono le prime parole della sua autobiografia, scritta col giornalista Andrea De Caro. La prima a Vukovar nel 1969, in quella che oggi è Croazia, ma all’epoca era ancora la Jugoslavia di Tito. «Non ho pianto. Mi hanno raccontato che avevo già un’arietta da duro», racconta, e per chi lo ha visto giocare e allenare non è difficile da credere. La seconda nascita è il 29 ottobre del 2019, all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, il giorno in cui gli venne annunciata quella malattia che oggi ha avuto la meglio sulla sua grinta di sergente.

La carriera: dalla Stella Rossa alla Lazio dello scudetto

Calciatore iconico degli anni Novanta, terzino dalle qualità eccelse e dal sinistro leggendario che è stato anche studiato dall’Università di Belgrado dopo un tiro a 160 km orari. È suo il record di punizioni segnate in Serie A con 28, di cui tre in una sola partita (altro record), un Lazio-Sampdoria del 1998. All’Inter invece, giocava a pari e dispari con Adriano per decidere chi dovesse tirare e quando toccava a lui spesso il pallone finiva in fondo al sacco. La sua carriera inizia nel Borovo e poi nel Vojvodina, ma ben presto le sue qualità lo portano nella più grande squadra slava della storia: la Stella Rossa di Belgrado. Con i rosso-bianchi vincerà la storica Coppa dei Campioni del 1991 allo Stadio San Nicola di Bari, firmando la vittoria che segnò la massima consacrazione del calcio jugoslavo, fino ad allora sempre ritenuto un mix di tanto talento e pochissima disciplina, appena prima che la repubblica socialista venisse dilaniata dalle guerre che sconvolsero i Balcani per tutto il decennio successivo.

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Dopo sole due stagioni alla Stella Rossa, nel 1992 Mihajlović approda in Italia, dove avverrà la sua definitiva consacrazione nel grande calcio. A portarlo in Serie A è la Roma, ma dopo alcuni anni alla Sampdoria la sua storia la scriverà dall’altro lato del Tevere, nella Lazio di Sven Goran Eriksson, a cui passa nel 1998. I biancocelesti vengono dalla vittoria della Coppa Italia e dalla finale di Coppa Uefa persa a Parigi con l’Inter di Ronaldo il Fenomeno. La squadra è fortissima, in rosa ci sono Luca Marchegiani, Christian Vieri, Pavel Nedeved e Dejan Stankovic, il capitano è Alessandro Nesta. Miha sarà protagonista della vittoria in coppa delle Coppe, della Supercoppa Uefa 1999, ottenuta contro il Manchester United di Ser Alex Ferguson, campione d’Europa, e soprattutto del secondo scudetto della storia della Lazio, vinto nel 2000 davanti alla Juventus. Con i biancocelesti colleziona 193 presenze e 33 gol, entrando di diritto nei cuori della Curva Nord dell’Olimpico. Nel 2004 si trasferirà all’Inter, dove chiuderà la carriera dopo aver vinto una Coppa Italia contro la Roma (con gol in finale) e lo scudetto di Calciopoli. Il suo palmarès totale enumera tre campionati jugoslavi, due scudetti, quattro Coppe Italia, tre Supercoppe Italiane, una Coppa dei Campioni, una intercontinentale, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa.

La carriera da Allenatore

L’amore per il calcio lo fa passare subito dal campo alla panchina. La carriera da allenatore comincia come assistente di Roberto Mancini all’Inter, mentre la prima panchina “da titolare” a è quella del Bologna nel 2008. Seguono Catania e Fiorentina, prima di una stagione alla guida della Nazionale Serba, che però lascia dopo 19 partite e la mancata qualificazione ai mondiali 2014. Torna in Italia alla Sampdoria dove il settimo posto della stagione 2014-2015 gli vale per l’anno successivo la chiamata del Milan. I rossoneri stanno attraversando uno dei periodi più difficili della loro storia e il serbo non riuscirà a risollevarli: verrà esonerato dopo 32 partite ma al Milan lascerà un’eredità preziosissima: il 25 ottobre 2015, nella partita contro il Sassuolo, scelse di schierare titolare un giovane portiere di 16 anni: Gianluigi Donnarumma, che ora è il portiere della Nazionale Italiana. Dopo l’esonero dal Milan, Sinisa passa al Torino, che porterà al nono posto. Due anni dopo torna al Bologna che guiderà anche dopo l’annuncio della malattia, fino all’esonero arrivato lo scorso settembre

Carattere e controversie

La carriera da allenatore non è stata gloriosa come quella da calciatore, ma in tutte le piazze in cui è stato il nativo di Vukovar ha lasciato un segno grazie al carattere battagliero che non ha mai messo da parte. La durezza dei suoi atteggiamenti gli è valsa il soprannome di sergente. Le sue squadre, al di là della tattica, era riconoscibili per l’impegno profuso dai calciatori, una caratteristica che a Bologna sembrava esaltarsi nei momenti in cui Sinisa era in ospedale a lottare tra la vita e la morte. Una durezza che derivava dalla storia di vita di chi era nato in un umile famiglia jugoslava e in cui la lotta era la realtà quotidiana. «Quando ero più giovane avevo perennemente bisogno di dividere il mondo in ‘noi’ e gli ‘altri’. Mi caricava. Alcuni storici lo definiscono bisogno del nemico», aveva dichiarato nel 2015 alla Gazzetta dello Sport. «Non rinnego nulla di ciò che ho vissuto, ma mi piace scoprire anche tutto ciò che non conosco. E se farsi amare da chi già ti ama è facile, trovo stimolante anche convincere chi magari è prevenuto o vuole metterti alla prova». Ad amare lo hanno amato quasi ovunque sia andato, mentre la mancata volontà di prendere le distanze dal nazionalismo serbo, che ha sempre professato lo ha portato ad assumere posizioni forti, come l’esclusione dalla Nazionale dell’ex Roma e Fiorentina Adem Ljajić, ma anche a rispondere a tono a cui gli rivolgeva insulti razzisti chiamandolo «zingaro». L’episodio più famoso in Lazio-Arsenal di Champions League del 2000 in cui Mihajlović venne espulso per aver insultato il capitano avversario Partick Vieira. «Da quando gioco a calcio ho dato e preso sputi e gomitate e insulti. Succede anche con Vieira», ricordava nel libro scritto con De Caro. Gli dico nero di m… Tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di m… per tutta la partita. Per lui l’insulto era zingaro, per me era m… Nei confronti di noi serbi, il razzismo non esiste…». Lo stesso atteggiamento lo ha portato anche a parlare in difesa di personaggi come Željko Ražnatović, capo del gruppo ultras paramilitare noto come le Tigri di Arkan, Ratko Mladić e Slobodan Milošević, generali serbi accusati di crimini contro l’umanità. Posizioni scomodissime certo, ma nascondersi non è mai stato nello stile del Sergente: «Sono serbo dalla testa ai piedi con i pregi e difetti del mio popolo orgoglioso», scriveva apertamente nella sua autobiografia. «Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa senza avermi mai conosciuto, non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia. Di certo non ho mai recitato».