«Mio padre è andato via nel 2018 e si è portato dietro la nostra unica macchina. Mia madre, per tutti questi anni, è andata al lavoro a piedi. Quando era dipendete di una pasticceria, usciva alle quattro. Ad Avezzano, in inverno, per strada c’è la neve».
Isabella, nome di fantasia, ha 24 anni e ha sempre abitato una realtà in cui le scelte non erano libere. È arrivata ad Avezzano dalla Romania più di dieci anni fa insieme alla famiglia, portando con sé poche cose. Dopo non molto, si è trovata sola con sua madre in quello che lei descrive come un piccolo centro che non le ha mai davvero accolte.
«Ad Avezzano le prospettive erano poche. Quando ho iniziato l’università abbiamo deciso di fare il salto». Si trasferiscono a Roma, prendono una piccola casa in affitto e iniziano a lavorare. Isabella si accontenta di quello che trova, sua madre lavora in casa di una donna che chiama «la Signora», anche per dodici ore al giorno. Tutti i suoi guadagni sono destinati a pagare l’affitto.
«Nel 2020 abbiamo fatto richiesta per ricevere il reddito di cittadinanza. Prendevamo 500 euro al mese. Quei soldi ci hanno salvato, sono stati determinanti per sopravvivere. Ci coprivamo le spese della casa e le visite di mamma che ha una patologia reumatica».
Madre e figlia hanno percepito il reddito fino al giugno 2022, poi, la mamma di Isabella ha deciso di andare via: Avezzano è un piccolo centro, con un clima che fa peggiorare la sua malattia, ma la vita costa meno.
«Oggi riceviamo un contributo inferiore, 100 euro, ma anche quello è un sostegno importante viste le spese mediche, l’aumento delle bollette e del costo dei beni primari. Unendoli ad altri bonus, riusciamo a tirare avanti».
Isabella non ha mai potuto smettere di lavorare per dedicarsi agli studi. «Ho fatto la barista, la hostess, poi la segretaria part-time. Mi sono persa in questo meccanismo e sono andata fuori corso all’università. La sensazione è quella di arrancare di continuo. È frustrante impegnarsi senza riuscire a coprire le spese, non sei sereno. Ho i pensieri e le frustrazioni del lavoro, senza potermi godere i soldi guadagnati perché vanno investiti tutti nella sopravvivenza. Dipendo da bonus, borse di studio e dai soldi che riesce a darmi mia madre».
Non avere scelta
Si definisce working poor, lavoratore povero, una persona che, pur avendo un’occupazione, si trova a rischio povertà ed esclusione sociale a causa del livello troppo basso del reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio, eccetera. Tra i paesi europei, l’Italia si trova al quarto posto per quanto riguarda la presenza di lavoro povero: sono a rischio povertà l’11,7% dei lavoratori tra i 18 e i 64 anni, contro una media dell’8,9% nell’Unione Europea.
La percentuale varia se si considera l’intensità lavorativa: su 100 famiglie a bassa intensità lavorativa circa 40 sono a rischio povertà; si passa al 25,7% per quelle a intensità media e all’8,3% dei nuclei a intensità lavorativa alta.
Isabella rientra oggi tra i 173mila percettori del reddito di cittadinanza che sono riusciti a trovare un lavoro ma restano in stato di bisogno.
Nel 2023 sono entrate in vigore le modifiche alla misura, a metà tra politica attiva del lavoro e forma di sostegno al reddito. Le novità più importanti interesseranno i percettori “occupabili” tra i 18 e i 59 anni e che in famiglia non hanno un minore, un anziano o una persona con disabilità. L’ottenimento del sostegno è subordinato alla frequenza di corsi di formazione o di riqualificazione professionale, anche se, come chiarisce un dossier del Parlamento, i percettori avrebbero già dovuto sottoscrivere la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro e presentarsi alla convocazioni dei centri per l’impiego (CPI). L’assegno mensile sarà erogato per un massimo di sette mesi, al termine dei quali, resta l’incertezza: nel 2024 il reddito di cittadinanza verrà sostituito da un “Fondo per il sostegno alla povertà e all’inclusione attiva” le cui modalità di gestione sono ancora da definire.
Un’immagine astratta della povertà
«Mi sono sempre vergognata di prendere il reddito. Mi veniva naturale nascondermi. È come se la società volesse indurre un senso di colpa dentro di te. Eppure, io ho sempre lavorato».
Quando Isabella ha iniziato a percepire il sostegno ha sottoscritto il Patto per il lavoro, rendendosi disponibile a un qualsiasi impiego che le permettesse di contribuire al bilancio della famiglia. «Non sono mai stata chiamata da un CPI, nonostante avessi qualifiche ed esperienze lavorative. Parlo anche 4 lingue! Neanche mia madre, quando è diventata titolare del reddito, è mai stata chiamata, nonostante un’esperienza decennale nel mondo della ristorazione».
Nel 2021, il Comitato scientifico per la riforma del Reddito di cittadinanza, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno, ha analizzato i punti deboli della misura.
Secondo la professoressa Saraceno, la modifiche introdotte dal nuovo governo «non hanno toccato le questioni fondamentali: l’iniquità nell’assegnazione dei reddito, i minorenni e gli stranieri svantaggiati, il disincentivo all’occupazione rappresentato dal fatto che per ogni euro guadagnato in più ne vengono tolti 80 centesimi. C’erano diverse criticità e una che avevamo evidenziato era che mancano politiche attive del lavoro. Il problema grosso era costituito dai centri per l’impiego che hanno funzionato male. Il fallimento del RdC è stato determinato non solo al fatto che ci sono ampie regioni d’Italia in cui la domanda di lavoro è scarsa, oltre a tassi alti di disoccupazione e inattività, ma anche al fatto che la presa in carico da parte di comuni e di servizi per l’impiego non ha riguardato neanche la metà dei potenziali coinvolgibili. Inutile lamentarsi che i percettori non facevano nulla, non erano neanche stati chiamati».
Le persone più colpite dalle modifiche del governo Meloni, spiega Saraceno, saranno quelle che hanno dai 50 anni in su che, per la loro età, troveranno con difficoltà un posto a tempo indeterminato. C’è poi una categoria di dimenticati dalla riforma: i lavoratori.
«Viene dato per scontato che basta lavorare per non avere più bisogno del sostegno. Tra i percettori del RdC ci sono più di 170mila lavoratori e circa 500mila hanno avuto un’esperienza di lavoro durante la percezione del reddito. Quindi, non è vero che è gente che non lavora per niente, solo che hanno lavoretti, magari anche regolari con contratti a tempo molto brevi. Il reddito va integrato se non è sufficiente».
Chi ha già un contratto non è tenuto a sottoscrivere il Patto per il lavoro e, anche nel caso in cui alcuni frequentino un corso di formazione intensivo, secondo Saraceno «sei/sette mesi di formazione, ammesso che inizino a breve, non sono sufficienti per persone che per oltre il 70% hanno qualifiche basse, se non bassissime. Cosa si aspetta il governo? Che immediatamente dopo trovino lavoro?».
Per la sociologa, l’odierno Esecutivo, insieme ai precedenti, si è basato su «un’immagine astratta dei poveri: l’astrazione del Movimento 5 Stelle era stata quella di pensare il RdC come politica attiva del lavoro indirizzata soprattutto ai giovani, per poi introdurre modifiche quando si sono resi conto che c’era tanta gente che non poteva lavorare. A quel punto, hanno inserito anche il Patto di inclusione sociale.
Il governo Meloni parte da una nuova astrazione: basta formare le persone e troveranno un lavoro, uno qualsiasi, come se non ci fosse in Italia il lavoro povero, le famiglie di lavoratori poveri, come se non fossimo un Paese in cui sono aumentate le occupazioni temporanee e a tempo parziale involontario».
Il futuro lontano
«I soldi ricevuti in questi anni non sono stati un investimento per il futuro ma un tappabuchi, essenziale per sopravvivere, ma non hanno prodotto alcun cambiamento reale. Oggi è come ieri.
Mi sembra che la visione alla base della riforma del reddito di cittadinanza lasci fuori una fetta troppo grande di persone che dispongono di pochi strumenti. Vorrei reali politiche attive. L’Italia non fa altro che mettere pezze».
Dopo oltre dieci anni in Italia, la famiglia di Isabella non ha grandi risparmi, non ha una casa, né un lavoro stabile. «Me ne sono andata anche io da Roma perché non avevo più i soldi per viverci. Mia madre svolge le faccende in una casa, stira le camicie in un negozio, fa le pulizie in un paio di uffici e ora si è trovata un lavoro come badante, ma comunque non basta».
Poche settimane fa, la madre di Isabella le ha comunicato la sua intenzione di tornare in Romania. «Non sono arrabbiata con lei. La capisco. Si è sacrificata per una vita per non avere niente in mano. Un lavoro lì lo troverà, si tratterà di ricominciare, ma almeno avrà il sostegno della famiglia».
Isabella deve completare gli studi e, se la madre dovesse partire, rimarrà sola. «In qualche modo farò. Convivo da tempo con un disagio psicologico e mi dico che devo metterlo da parte perché non ho abbastanza soldi per fermarmi. Sai che se smetti di lavorare… il mese successivo… chissà. Siamo schiave qui. Troverò una soluzione, devo farlo, ma forse alla fine tornerò anche io in Romania in cerca di una vita vera, sono stanca di stare in equilibrio sul filo della sopravvivenza».
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