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Esclusiva

Gennaio 27 2023
Giovani e memoria «Sono tutti nostri nonni»

Bruno e Daphne raccontano il progetto “Radici future” promosso dalla Fondazione Museo della Shoah, un’iniziativa attraverso cui il testimone della memoria passa da una generazione all’altra

Shoah, catastrofe. Un lutto, di portata mondiale, la cui elaborazione passa dall’esercizio della memoria e dal potere purificatore delle parole. Lo si è fatto per molti anni e lo si fa ancora, nel tentativo di risanare la ferita antica che ha portato milioni di ebrei a morire nelle camere a gas. Oggi che la maggior parte dei sopravvissuti a quella violenza nutrita di banalità sta morendo, c’è bisogno di ripensare le forme attraverso cui continuare quel fine lavoro di sutura.

A farlo sono i giovani del progetto “Radici future”, promosso dalla Fondazione Museo della Shoah, che mira a istruire volontari, in modo che alla fine del programma possano diventare portavoce della Memoria e guide nei percorsi espositivi promossi dall’associazione. La prima edizione ha coinvolto circa 10 giovani in modo attivo e concreto, che si sono resi disponibili a lavorare fianco a fiano per promuovere la conoscenza di fatti e personaggi protagonisti di quello sterminio.

Tra loro c’è Bruno, studente di Storia a La Sapienza e volontario da circa un anno e mezzo. «Ho deciso di fare la guida durante il mio mandato come consigliere Ugei (Unione Giovani Ebrei d’Italia, ndr) e per primo mi sono offerto per ricoprire la mansione sia per l’interesse in quanto studente di Storia sia per la mia storia familiare. La mia famiglia è stata toccata dalla Shoah in maniera molto importante. Da parte paterna, furono deportati tre fratelli di mio nonno, i genitori e due cugini carnali. Mio nonno e un altro suo fratello si sono salvati per una casualità. Questo mi ha spinto a voler conoscere di più le vicende personali di chi avevo intorno collegandole alla Storia che studiamo».

Bruno ha frequentato le scuole ebraiche e ricorda in modo chiaro la prima volta che ha sentito parlare di Shoah. «Avevo 6 anni e venne Piero Terracina, sopravvissuto allo sterminio. Ricordo la sua voce come se fosse successo ieri». E poi l’incontro con l’altro grande sopravvissuto italiano, Sami Modiano. «All’epoca avevo dieci anni. Non è facile a quell’età sentire il racconto di certi fatti, ma credo che quell’esperienza mi abbia segnato a tal punto da incidere nella scelta del percorso universitario che avrei fatto».

L’esercizio della memoria è per questi ragazzi un onore e un onere. «Sento il peso di dover portare avanti la memoria, anche perché molti dei sopravvissuti ci stanno lasciando e non ci saranno più le loro voci e le loro emozioni a portare avanti la narrazione. Sta a noi giovani colmare queste lacune con la tecnologia e lo studio». Anche perché, contrariamente a quanto si può pensare, «l’antisemitismo esiste ancora, come ogni forma di odio non si spegnerà mai».

A quella di Bruno, si aggiunge la voce di Daphne, una ventiquattrenne di Milano, laureata in comunicazione d’impresa. «Per me è come se fossero tutti miei nonni», afferma. «Tutto ha avuto inizio con la testimonianza di Liliana, la prima che ho ascoltato, poi sono andata ad Auschwitz con Sami Modiano e, infine, ho incontrato Edith Bruck e le sorelle Bucci qui alla Fondazione Museo della Shoah. Mi alzo la mattina e vengo qui per portare la testimonianza di tutti loro, non per uno in particolare perché tutti hanno vissuto storie diverse e ognuna è degna di essere tramandata».

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