Un uomo si tocca la pistola che ha in tasca con aria minacciosa. Urla. Sul suo volto c’è uno sguardo disperato. Intorno a lui il vento gelido delle montagne che dividono l’Italia dalla Svizzera. Le guardie all’ingresso lo osservano guardinghi: è tutta la notte che prova a convincerli. «Se non ci fate passare uccido mia moglie e i miei figli qui, in questo momento, piuttosto che tornare indietro, li ammazzo!».
Comincia così l’incredibile storia di Pupa Garribba, classe 1935, nata a Genova, italiana, eppure sul suo atto integrale di nascita c’è un dettaglio particolare: “appartenente alla razza ebraica”. «C’è ancora oggi sa? Dopo tutti questi anni non lo hanno mai tolto. Sa cosa significa? Che non sono mai potuta andare a scuola!»
Nel 1938, quando vengono emanate le leggi razziali, Pupa ha solo 3 anni, 8 quando ha cominciato a nascondersi, 9 quando è cominciata la sua traversata verso la Svizzera per trovare rifugio: «facemmo tutto il percorso a piedi. Mia madre, addirittura, aveva indosso le scarpe col tacco perché non dovevamo dare l’idea di essere delle persone in fuga».
Superata la frontiera con la Svizzera, vengono prese le foto segnaletiche e le impronte digitali di adulti e bambini. «Per mio padre fu uno shock perché a quel tempo venivano prese solo ai malviventi. Ricordo che urlava “avete preso le impronte digitali ai miei figli, come fossero dei criminali!”. È come se questo inchiostro sulle mani ci fosse rimasto impresso per il resto della nostra vita».
La vita di Pupa Garribba in Svizzera
Divisi sin da subito: padre in un campo di contenimento maschile e madre e figli in uno femminile. Riuniti solo poco dopo per ritrovarsi in un nuovo campo di contenimento a 20 chilometri da Zurigo. «Ci avevano sistemato in una caserma dismessa che aveva il tetto rotto e potete immaginare il freddo che faceva. Si arrivava a venti gradi sotto zero. Dormivamo senza riscaldamento su dei sacchi buttati per terra. La cosa più terribile era che ci si doveva lavare alle 7 del mattino nel cortile della prigione».
Le giornate degli adulti procedevano scandite dal lavoro, mentre i bambini restavano abbandonati a loro stessi. Fu solo grazie al carattere socievole e creativo del padre che Pupa e le famiglie del campo di contenimento riuscirono a rallegrare le loro giornate: «aveva cominciato a scrivere dei piccoli racconti teatrali che ci dava da leggere e imparare a memoria e noi mettevamo in piedi degli spettacoli.
Cercavamo stracci per fare i costumi di scena e per fare una minima scenografia che non fossero quelle mura terribili».
«Mio padre la sera organizzava degli spettacoli anche con gli adulti. Mi ricordo che un uomo era scappato portandosi come unica valigia il suo violino e durante le serate faceva i concerti. Chi sapeva cantare cantava, chi sapeva recitare decantava poesie. Insomma, cercavamo di avere un minimo di vita sociale».
Grazie a questi piccoli racconti, il padre iniziò a collaborare con un giornale di Lugano che scriveva delle pagine dedicate a fiabe per bambini. Fu così che dimostrarono di poter uscire dal campo di contenimento. Pupa si trasferisce a Lugano come profuga e finalmente può realizzare il suo più grande sogno: andare a scuola.
La prima volta a scuola
«Ero emozionatissima! L’unica preoccupazione mia e di mio fratello erano i vestiti, perché eravamo partiti solo con una valigetta e ovviamente soldi non ce n’erano. Dovevamo cercare di andare a scuola nella maniera più decente possibile. Mi ricordo che avevo una gonnellina che era diventata cortissima e la camicetta che mi stringeva e non c’erano soldi per comprare le scarpe che erano troppo corte. Allora mio padre tagliò la punta con una limetta e andammo a scuola così, con le scarpe aperte con le dita dei piedi che uscivano fuori».
L’entusiasmo di Pupa si infrange presto con una realtà estremamente razzista, con una scuola che li vede come estranei, come «sporchi italiani fascisti», come stranieri che dovevano essere grati perché avevano avuto salva la vita. «Come se salvare la vita ad un essere umano fosse un atto così eroico. Eravamo perseguitati in Italia come ebrei e in Svizzera come italiani».
Finita la scuola, il suono che inonda la stanzetta di Pupa e la voce robotica che viene emessa da radio Londra che racconta tutti gli aggiornamenti sulla guerra. Unico “lusso”, in una stanza divisa per quattro persone, era una grande carta geografica dell’Europa.
«Noi bambini avevamo l’incarico di mettere le puntine colorate sulla cartina mano a mano che gli alleati liberavano il paese. Ricordo l’emozione enorme che provammo quando sentimmo la radio annunciare la liberazione di Genova, la notte del 24 aprile, dai suoi stessi partigiani».
«Festeggiammo con i canti e balli, stappammo anche una bottiglia di vino e allora capimmo che prima o poi la guerra sarebbe finita. Non sapevo che tra i partigiani che avevano liberato Genova c’erano anche due miei cugini, quindi un’emozione ancora più grande».
Il ritorno in Italia
10 luglio del 1945: Pupa Garribba torna in Italia, finalmente, dopo un viaggio faticoso, tutto interamente a piedi, con documenti che identificano lei e la famiglia come displaced person, sfollati, senza più un’identità nazionale. Un percorso lungo in un’ Italia inesistente, distrutta dalla guerra e dai bombardamenti. «Ricordo che passammo il fiume Ticino su una zattera perché il ponte non c’era più. Arrivammo da Chiasso a Genova in tre giorni: oggi ci vogliono solo poche ore».
Arrivati a casa, ecco un’ulteriore sorpresa: i nonni sono vivi, stanno bene. La gioia di Pupa dura poco, perché ad aprire la porta c’è un gruppo di fascisti che non intendono andarsene. Durante la guerra il loro appartamento è stato dato alle famiglie del Fascio.
«Abbiamo dormito in sei in una sola stanza che ci avevano “concesso”. Per riavere le nostre case siamo dovuti andare in tribunale. Facevamo la fame, il negozio di mio padre era stato bruciato e in quel periodo vendevamo il possibile per andare avanti».
Eppure il desiderio di Pupa è sempre lo stesso: riprendere la scuola. Questa volta si sente animata da un sentimento diverso. «Avevo uno straordinario bisogno di condividere con qualcuno quello che mi era successo e quindi chiesi di saltare la quinta elementare e andare direttamente in prima media perché pensavo che avrei avuto un rapporto più stretto, più maturo. Me ne sono pentita tutta la vita.
Ho ricevuto tante domande, ma appena dicevo che ero dovuta scappare perché ero un’ebrea, esse morivano sulla loro bocca: il silenzio era caduto su queste vicende. Ho ricevuto per anni stesse domande, stesse risposte, stesso silenzio. Per loro l’Italia era formata da brava gente, era tutta colpa dei tedeschi. Basta così».
Pupa racconta che dopo scuola tornava sempre a casa con il tram, con una ragazza con fattezze opposte alle sue: alta e con lunghissime trecce bionde, mentre lei era piccola e con i capelli corti. «Ci chiamavano a scuola l’articolo “il”», ride. Poiché aveva le tasche troppo piccole, Pupa era solita dare all’amica il suo abbonamento per tenerlo nelle sue.
Un giorno si dimenticò di riprenderlo e l’amica corse a casa sua per restituirglielo: «L’abbiamo invitata ad entrare e subito dopo sentito delle urla provenire dalla strada. Era la madre: “Vieni giù che adesso ti do quattro schiaffi. Ti ho detto che gli ebrei non devi frequentarli. È colpa loro se c’è stata la guerra e se tuo padre non è tornato”. Da allora non l’ho più vista».
Non basterebbero mille pagine per raccontare l’incredibile storia di Pupa Garribba, donna forte e indipendente, con il grande desiderio di conoscenza e di combattere contro le discriminazioni. Ancora oggi va nelle scuole per insegnare ai ragazzi il valore della storia e della diversità: «L’Italia non ha mai fatto i conti con il passato, mai, e il fascismo è rimasto appiccicato nella mente e nel cuore della gente ed è normale che rinasca, no? È normale».
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