Mitrovica è una città spezzata, divisa a metà. Da una parte del fiume che l’attraversa, a Mitrovica sud, abitano i Kosovari di etnia albanese e dall’altra, a nord, la minoranza serba. In mezzo c’è un ponte sul fiume Ibar, presidiato ogni giorno dai carabinieri italiani della missione speciale NATO Kfor. Marko, 29 anni, è serbo e lavora in città. Da quando ha memoria, la comunità in cui vive è sempre stata frammentata. Per questo, insieme ad altri colleghi, gestisce da anni New Social Initiative, una Ong che si occupa di ricostruire il tessuto sociale e aumentare il dialogo tra persone appartenenti a gruppi etnici diversi nella parte settentrionale del Kosovo. «Le nostre sono vite a metà. Per fare qualsiasi cosa, dallo shopping, alle visite mediche e all’università, io e quelli della mia comunità ci rechiamo in Serbia. Se non lavorassi per una Ong che si occupa di promuovere il dialogo probabilmente non avrei nessun contatto con l’altra parte della popolazione», spiega Marko.
«È difficile spiegare cosa si prova a vivere tutta la propria adolescenza in una zona così delicata. Ero alle elementari quando è scoppiata la guerra e, da quel momento in poi, nulla è più stato lo stesso. Ci siamo trovati a non poter più giocare all’aperto o uscire di casa per lunghi periodi, né a poter fare progetti sicuri sul futuro quando siamo cresciuti. La tensione non si è mai esaurita. A settembre, per esempio, con la mia Ong abbiamo organizzato un coffee festival sul ponte di Mitrovica, che mette in comunicazione le due parti della città. Sono stati dei giorni bellissimi, pieni di risate, musica e arte. Pochi mesi dopo quel ponte era deserto. Nessuno lo poteva attraversare e avevamo perso ogni contatto con l’altra comunità. Da quel momento in poi i nostri partner albanesi hanno smesso di lavorare con noi. Quello di questi mesi è uno dei momenti più difficili da quando l’associazione è nata».
Tra novembre e dicembre il nord del Kosovo ha attraversato momenti di altissima tensione. In quei giorni la minoranza serba presente nella regione ha eretto barricate e blocchi stradali, nell’ambito di uno scontro col governo di Pristina. Il conflitto tra le due nazioni nasce molto tempo fa, con la guerra in cui intervenne la Nato del 1998-99 e la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo del 2008, mai accettata dalla Repubblica Serba e da altri attori della comunità internazionale, come la Cina o la Russia. «Ci sono nodi irrisolti che ci portiamo dietro dall’inizio della presenza internazionale in Kosovo e che di tanto in tanto si riacutizzano», spiega Andrea Angeli, funzionario italiano all’Onu, che ha vissuto 16 anni nei Balcani e 7 in Kosovo. La crisi iniziata tra novembre e dicembre, nello specifico, riguardava proprio la popolazione di etnia serba che vive nella parte settentrionale del Kosovo.
Il colonnello Vincenzo Grasso, ex portavoce della missione Nato Kfor, spiega che: «Tutto è iniziato perché la minoranza serba continuava a voler usare le targhe automobilistiche dell’ex Jugoslavia. La decisione del Pristina di dire “questo è il nostro territorio e si useranno solo targhe kosovare” ha riacceso la questione. Sono poi iniziate le dimissioni di massa del personale serbo che partecipava alle istituzioni del nord del Kosovo e un poliziotto di etnia serba è stato arrestato. Gesti del genere sono solo una goccia nel mare di provocazioni che ci sono state negli anni precedenti».
In quel periodo il governo di Pristina ha dato quasi un ultimatum. A Mitrovica, dove abita Marko, si sono riviste barricate e molotov, mentre qualcuno ha sparato contro i contingenti della missione Nato. Belgrado ha minacciato di muovere le truppe.
Nelle settimane seguenti la situazione si è distesa. «Rispetto al periodo di tensione di dicembre le barricate sono state rimosse. La situazione è rientrata in apparente normalità, in attesa della prossima crisi», dice Giorgio Fruscione, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ed esperto di Balcani. «Il rischio di conflitto è da escludere. Non l’ho mai preso in considerazione per diverse ragioni pratiche. La Nato è presente in Kosovo, quindi per la Serbia muovere guerra sarebbe un suicidio militare, oltre che diplomatico. Belgrado si isolerebbe e non sarebbe supportata da nessuno, neanche dalla stessa Russia».
«Questa volta, però, la tensione è stata più alta, anche a causa della situazione in Ucraina», aggiunge il colonnello Grasso. La Russia, che non ha mai nascosto i propri legami con la Serbia, avrebbe contribuito a destabilizzare la situazione nella zona per cercare di ottenere una situazione di precarietà nei Balcani. L’obiettivo del presidente Vladimir Putin sarebbe quello di tentare di distrarre l’attenzione internazionale dal fallimento della guerra contro Kiev.Nell’ultimo periodo sembrava fossero iniziate delle trattative a livello europeo per aggiornare gli accordi di Bruxelles e normalizzare il rapporto tra le due potenze. Per il premier kosovaro Albin Kurti i legami sempre più stretti tra Mosca e Belgrado sarebbero però un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo.
Secondo Giorgio Fruscione servirebbe uno sforzo maggiore a livello comunitario. «L’Unione europea sta sempre agendo in reazione alle singole crisi che scoppiano, cercando di mediare di volta in volta. Il risultato che si ottiene è a breve termine e ripristina lo status quo. Le azioni diplomatiche non sono mai mirate a una soluzione duratura che possa davvero risolvere la situazione e riconciliare le comunità locali», continua Fruscione.
Della stessa idea è anche Andrea Angeli. «Per sbloccare questo frozen conflict servirebbe un colpo d’ala della diplomazia mondiale, in particolare di quella americana. Non sarà facile, però, trovare una soluzione che possa essere condivisa, non solo da serbi e kosovari, ma anche all’interno dello stesso arcipelago politico serbo. C’è un conflitto interno nella loro comunità e non tutti la pensano allo stesso modo. I serbi del nord del Kosovo hanno idee diverse dagli altri, sono furiosi con il presidente Aleksandar Vučić e lo accusano di averli abbandonati».
Il 23 gennaio il capo del governo di Belgrado ha dichiarato di aver incontrato i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Stati Uniti e di aver ricevuto un ultimatum da parte dell’Unione Europea. I leader occidentali hanno minacciato Vučić affermando che, se continuerà a opporsi a una normalizzazione dei rapporti tra le due nazioni, allora la Serbia andrà incontro a un’interruzione del processo di adesione all’Europa e a un blocco e ritiro degli investimenti Ue nel Paese.
«A differenza di altre crisi, in cui si cerca di guardare avanti, nei Balcani si torna spesso indietro. Conflitti di questo tipo sono laceranti, hanno segnato intere popolazioni e non vengono facilmente dimenticati. Il ricordo di quello che è passato, di chi aveva ragione e chi torto è spesso vivo, anche nelle nuove generazioni», conclude Angeli. Nel frattempo, a Mitrovica, il ponte rimane deserto e la speranza di poterlo attraversare di nuovo, per Marko e i suoi amici, si fa sempre più flebile.